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Personaggi  

Valeria Tron, la cantautrice del patouà

Valeria Tron, la cantautrice del patouà

02 febbraio 2015

Da Rodoretto al premio Tenco, il percorso di un’artista controcorrente

«Molte delle mie canzoni in fondo sono delle preghiere, degli atti d’amore per un mondo e una cultura per cui saprei dare la vita»
Valeria Tron. Qualcuno la conosce da sempre, altri hanno saputo di lei per l’affermazione al premio “Tenco”, uno tra i più ambiti per i cantautori. Un successo non da poco, una sfida partita quasi per scherzo. Un solo disco spedito per le selezioni e poi, ritrovarsi in finale, insieme a gruppi che ci provano da anni, dopo centinaia di dischi inviati. Ma la soddisfazione più grande per Valeria è vedere il “patouà”, la lingua della propria terra, la lingua che per prima le si è impressa nella mente e nel cuore, entrare a pieno titolo nella musica d’autore. Ci tiene a sottolineare “il patouà” e non più generalmente l’occitano; Valeria vuole sfuggire in ogni modo la logica dell’operazione commerciale, non ama l’occitanismo di maniera, vuole essere vera, autentica e ci parla della sua lingua che è ancora la lingua di molti.
«Il patouà è una lingua legata alla vita, alla manualità, alla verità. È una lingua senza estremi, non sa dire “addio” e neppure “ti amo”, parla per immagini, è duttile, fotografica. Tante sue espressioni sono realmente intraducibili, sono come fotogrammi tratti dall’esperienza quotidiana, in perenne movimento. Un esempio per tutti: il patouà non sa dire “alba” ma piuttosto “all’entrata del giorno”. E poi il patouà non è come l’italiano, che si può parlare in molti modi, più o meno forbiti. No, il patouà o lo sai o non lo sai, e si parla in un solo modo».
Valeria è cresciuta a Rodoretto, in val Germanasca, e ricorda i genitori come persone vere, autentiche, nel bene e nel male. Ribelle per natura sgrana gli occhi mentre parla degli spazi aperti e del ritmo del tempo e delle stagioni, in cui ha scoperto la propria identità ed ha imparato l’importanza della forza di volontà. Ma per lei la vera ricchezza, semplice e preziosa, che merita tutta l’attenzione possibile, è la memoria. Valeria ama la memoria, la cura, la coltiva, e la sua casa ne è la testimonianza più autentica. La memoria non è un qualcosa che si coniuga con la quantità, ma piuttosto con la qualità, con il particolare, il dettaglio. «Il piatto sbreccato, la gonna sgualcita, il mobile vissuto e consumato sono cose cariche di vita, capaci di trasportare una storia. La mia terra, la mia gente, mi ha lasciato tanto da ricordare, da trasportare… ha caricato la mia gerla di cose talmente semplici da essere irraggiungibili, e allo stesso tempo, talmente tangibili e quotidiane da essere dolorose». Valeria ci confida: «molte delle mie canzoni in fondo sono delle preghiere, degli atti d’amore per un mondo e una cultura per cui, credo, saprei dare la vita». E continua «Tutte le persone che ho amato rimangono vive in me, io non posso conoscerle per ciò che sono, ma nelle canzoni non faccio altro che raccontare la mia vita e ciò che le vite degli altri mi hanno lasciato. Ogni canzone è viva, dà vita a qualcosa. Tutto mi rapisce quando mi appare vero, pulito, capace di raccontare una storia. In particolare anziani e bambini, gli estremi della vita, mi appaiono di una pulizia straordinaria. Non possono mentire, gli uni perché ancora non sanno farlo, gli altri perché non ne hanno più alcun bisogno». Quello che in definitiva preme a Valeria, il fine della sua creatività, è di riuscire a cogliere e trasmettere la bellezza, al di là delle parole. Esprimere ciò che sente come “il vero”, compreso con un metro di giudizio formatosi in un mondo dove l’essenziale è la regola di ogni giorno e di tutta la vita.

Massimo Damiano

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