Non fu un San Valentino allegro, dieci anni fa a Dubbione. Neppure per gli innamorati.
Il 14 febbraio 2009 San Rocco perdeva don Mario Ambrosiani che ne era stato parroco fin dall’erezione della parrocchia nel 1954.
In realtà la storia di don Mario a Dubbione risaliva già agli anni precedenti quando il parroco di Pinasca, Lorenzo Paolasso – raccontava don Ambrosiani –, nel mandarlo a Dubbione giovane vicario, l’aveva messo in guardia dalla gente che vi avrebbe trovato: «Lagiù a son tuti comunistass». A quei “comunistacci”, però, don Mario avrebbe dedicato tutta la sua vita. Dai tragici giorni della guerra – fu lui il 10 maggio 1944 a benedire le dodici salme trucidate a Castelnuovo dai tedeschi e, lo stesso giorno, a operare per la salvezza di Placido e Riccardo Richiardone, prigionieri ai “Salesiani” a Perosa – ai suoi ultimi giorni al “Fer” in cui tornava a Dubbione col pensiero.
Pier Giorgio Debernardi, vescovo emerito di Pinerolo, lo ricorda come «un prete tutto d’un pezzo, generoso, a tratti fu persino eroico nella fedeltà alla sua vocazione e nel donarsi completamente alla sua comunità». Il suo modo di vivere il sacerdozio «rispecchiava certamente la formazione ricevuta nel seminario diocesano» dove il giovane Mario, terminata la quinta elementare, trascorse i suoi giorni fino all’ordinazione del 21 giugno 1942.
Dopo la guerra, i soldi erano pochi, ma con l’energia che tanti gli ricordano anche in tarda età, il giovane vicario iniziò a concentrarsi nella cura dei giovani. I tempi non erano maturi per un oratorio unisex, così ne fece erigere uno ciascuno per giovanotti e signorine. L’oratorio maschile sorse al posto di un frutteto di proprietà della chiesa: «Mi davano del matto – raccontava don Mario – perché l’affitto di quel terreno era buono, ma a me non serviva denaro, ma un posto per far giocare i ragazzi». Anche monsignor Debernardi testimonia la dedizione di don Ambrosiani per i giovani: «Erano la sua vita: nell’anno del suo brutto incidente d’auto, dopo mesi di ospedale, me lo ricordo per tutta l’estate al Gr.Est, seduto a guardare i bambini giocare. E sotto la veste aveva ancora il catetere».
L’abito talare era uno dei suoi segni distintivi, che posava raramente, forse solo in occasione delle gite estive dove guidava i suoi alla scoperta delle montagne che tanto amava. Tra queste il Rocciamelone, per via della sua celebre madonna, era la sua preferita. Ma con un rammarico: «Non ho mai detto messa in vetta, da giovane, per lo sforzo, non sono mai riuscito a rispettare il digiuno dalla mezzanotte e quando son cambiate le regole, la salute non mi ha più permesso di salire».
Da buon prete, la sua forza derivava dalla preghiera. «Quando ogni tanto passavo a salutarlo – rammenta ancora Debernardi – lo trovavo sempre raccolto davanti al tabernacolo». Partendo dalla fede nel Gesù presente nell’ostia, riusciva a vederlo anche nel prossimo. E a chi lo rimproverava perché a volte dava il suo aiuto anche a qualche approfittatore, era secco nel replicare: «È meglio sbagliare per troppa carità che per troppo poca». Spesso per dare agli altri, sottraeva a se stesso: «Eravamo in molti – sottolinea Monsignor Debernardi – ad ammirare il suo stile di vita semplice e umile, la sua povertà». Con il FAC (Fraterno Aiuto Cristiano), questa carità si diffuse un po’ in tutto il mondo. Nel primo anniversario della morte, il missionario Giovanni Piumatti, rivolgendosi idealmente a lui, ne riassunse l’operato: «Dalla piccola-grande Dubbione, sapevi ricordare i fratelli del Kenia, del Bangladesh, del Brasile, dell’Argentina, delle Filippine, della R.D. Congo… E facevi tutto questo senza dimenticare e senza rubare nulla ai tuoi giovani, ai tuoi malati, ai senza lavoro, ai barboni, agli zingari».
GUIDO ROSTAGNO