Dal 1° gennaio l’emergenza “Nord Africa” è diventata “gestione ordinaria”
Il 31 dicembre scorso non si è solo chiuso un anno che molti giudicano problematico sotto diversi aspetti. Da quella data, infatti, per le diverse migliaia di profughi dalla guerra di Libia, presenti sul territorio nazionale – dopo il provvedimento generalizzato di concessione di un permesso di soggiorno di un anno per motivi umanitari – si è definitivamente conclusa l’accoglienza disposta a seguito della “Emergenza Nord Africa”. Probabilmente anche a seguito delle numerose pressioni espresse da elementi della società civile, come le associazioni di volontariato, e da numerosi Comuni coinvolti, spesso loro malgrado in questa vicenda, il Ministero dell’Interno, con una circolare del 28/12 ha sancito la chiusura dello stato di emergenza ed ha disposto il «rientro nella gestione ordinaria». In altre parole, è stato disposto il passaggio di competenze da un Commissario straordinario appositamente nominato, ai Prefetti che da adesso sono investiti della responsabilità di approntare iniziative finalizzate all’accoglienza e di favorire «percorsi di uscita». Il termine indicato per queste operazioni, nella medesima comunicazione, è di 60 giorni (quindi, di fatto, l’assistenza è prolungata fino al 1° marzo). Ciò che suscita perplessità, al di là delle non indifferenti risorse finanziarie fin qui impiegate, è una certa carenza rispetto ad un’organica progettualità volta ad integrare queste persone che, fuggite da situazioni di guerra, sono state considerate quasi alla stregua di uomini-vetro, trasparenti rispetto alle istituzioni e perciò sostanzialmente al di fuori del contesto dei diritti-doveri civici.
Questo ha comportato una serie di ripercussioni nella gestione della vicenda umana e sociale di questi soggetti, considerati titolari del diritto elementare di essere nutriti ed ospitati sotto un tetto, ma non destinatari di altri diritti altrettanto fondamentali e dei corrispondenti doveri. Aver lasciato questi giovani lavoratori in una condizione in cui nulla è stato richiesto in cambio di quanto lo Stato ha loro offerto è equivalso a creare la convinzione, tra alcuni di loro, che l’assistenzialismo possa trasformarsi in una condizione permanente. Desidero riferirmi, a questo proposito, a quanto la Costituzione italiana afferma: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art.4). In questa direzione si sono diretti gli sforzi da parte di alcuni enti, di associazioni di volontariato e di singoli cittadini: ciò ha prodotto, per esempio, a Frossasco, l’inserimento lavorativo di una dozzina di richiedenti asilo ed ha indotto un buon numero di rifugiati a seguire vari corsi di studio e di qualificazione professionale. Considerare queste persone come un’opportunità offerta al nostro territorio – pur nelle evidenti difficoltà di questi difficili momenti – ed aprirsi ad una autentica accoglienza, oltre che un richiamo ai valori costituzionali, può rappresentare un prezioso esercizio di fede. Ci tocca vivere tempi in cui i segni sono certamente complessi e pieni di contraddizioni; non vi è dubbio però che, con le tradizioni e la cultura, la nostra fede rappresenti la più autentica ricchezza del nostro Paese. Abbiamo avuto l’occasione di avere tra di noi, da quasi due anni, persone provenienti da alcuni dei Paesi più poveri della terra ma quasi non ce ne siamo accorti, siamo passati oltre, presi dai nostri problemi di un’economia che, in questi anni, sembra impazzita. Forse qualcuno ha sperato che queste persone presto avrebbero lasciato le nostre zone e che altri avrebbero avuto il compito di occuparsene, proprio perché prima che ad altri, bisogna pensare ai “nostri”. Ma che cosa conosciamo dei tormentati Paesi di questi sfortunati fratelli e che cosa abbiamo imparato dalle loro storie di fame e di guerra? A chi ha voluto ascoltarli molto probabilmente saranno affiorate alla mente aspetti non dissimili dalle vicende di molti dei nostri emigranti. Come rispondere allora alla sfida della loro presenza, forti, da un lato, dei tesori di sofferenza che hanno coinvolto un gran numero delle nostre famiglie e, dall’altro, del messaggio biblico che, nel Nuovo come nel Vecchio Testamento insistentemente ci invita all’attenzione agli ultimi, come i forestieri: «…perché voi stessi siete stati stranieri in Egitto» (Esodo, 22, 20)? Nei momenti di crisi sono nate e perciò possono, anzi devono, nascere anche oggi nuove esperienze di apertura e condivisione: si possono individuare nuove forme di solidarietà e consolidarne altre già praticate; si possono riscoprire anche con gioia una ritrovata sobrietà e moderazione nei consumi, in una prospettiva di condivisione e di compartecipazione nella gestione delle risorse, in un esercizio concreto di fede. Nessuno può disporre in modo assoluto di quanto gli è stato donato! Il messaggio evangelico, vissuto anche alla luce della presenza – benefica! – di questi fratelli rifugiati ci richiama ad un senso di realtà forse un po’ dimenticato, certo lontano dai cliché di un modello di sviluppo nel quale, forse un po’ troppo a lungo, ci siamo crogiolati nella illusoria idea di poter godere di uno sviluppo illimitato – qualche volta perfino un po’ irresponsabile – e di un conseguente benessere da non spartire, di un talento di cui disporre a nostro piacimento, da sotterrare sotto il mucchio di rifiuti da noi stessi prodotti.