27 Maggio 2025
Intervista a Federico Dattila, finalista a GiovedìScienza

Il ricercatore vigonese Federico Dattila, nel 2025 per la seconda volta finalista al premio Giovedì Scienza, si racconta.
La ricerca a servizio dell’ambiente
Federico Dattila è uno scienziato. Classe 1993, è nato a Savigliano, ma è cresciuto a Vigone. Ha frequentato il Liceo Porporato di Pinerolo e ha proseguito gli studi universitari presso la Facoltà di Fisica dell’Università di Torino. Grazie a un progetto Erasmus ha avuto l’opportunità di studiare prima a Göteborg, in Svezia, e successivamente in Spagna, dove è rimasto fino al 2022, conseguendo un dottorato in “Industria e tecnologia chimica”. Rientrato in Italia, oggi lavora come ricercatore al Politecnico di Torino. Per il secondo anno consecutivo è finalista del premio GiovedìScienza con un progetto finalizzato a utilizzare l’anidride carbonica.
Cos’è il premio GiovedìScienza?
È un concorso nazionale per giovani ricercatori e ricercatrici che lavorano in Italia. C’è una preselezione che valuta sia la capacità divulgativa, sia il curriculum scientifico. Vengono selezionati dieci finalisti. La finale prevede una presentazione con 20 slide, ognuna della durata di 20 secondi, per un totale di 6 minuti e 40. La valutazione avviene tramite una giuria scientifica e tre classi scolastiche, che assegnano due premi distinti. Il premio, dal valore di 5000 euro, è molto significativo nel panorama italiano della ricerca, dove i fondi scarseggiano. Quest’anno su 80-90 partecipanti, ne sono stati selezionati dieci, tra cui ci sono io e altri due ricercatori torinesi.
Come sei arrivato tra i finalisti?
C’è una selezione: si invia un testo di 3000 caratteri in cui si presenta la propria ricerca in chiave divulgativa, due slide esemplificative, tre articoli scientifici e una lettera dell’ente di appartenenza. La valutazione avviene per il 60% sulla qualità scientifica degli articoli e per il resto sul materiale divulgativo presentato. Io, dal dottorato a oggi, ho pubblicato circa quindici articoli. Il periodo in Spagna è stato molto produttivo, grazie anche a un progetto europeo che mi ha dato modo di collaborare con diversi gruppi di ricerca internazionali.
Come è nata la tua passione per la scienza?
Avendo fatto studi classici, da ragazzo pensavo di fare l’avvocato, poi ho letto un libro di Stephen Hawking che mi ha fatto appassionare alla fisica. Avevo iniziato con l’idea di fare ricerca teorica. Ma poi, con la triennale, mi sono reso conto che volevo fare qualcosa di utile per il mondo. Il cambiamento climatico è una delle sfide più urgenti.
Perché hai scelto di occuparti di anidride carbonica?
Lavoro a una tecnologia che cattura l’anidride carbonica e, attraverso celle elettrochimiche alimentate da energia rinnovabile, la trasforma in metano. Se questa ricerca arrivasse sul mercato, potremmo avere case capaci di autoprodurre energia e gas, riducendo costi, dipendenze estere e emissioni. L’idea è di riutilizzare la CO2 già presente in atmosfera, evitando di estrarne di nuova. La ricerca è complessa perché la CO2 è una molecola stabile e occorre trovare metalli adatti per farla reagire.
Il problema attuale, quando parliamo di cambiamento climatico, è che oggi il gas metano lo estraiamo dalla terra. In pratica, tiriamo fuori del metano che prima non era presente in atmosfera, lo bruciamo, e così ogni volta aumentiamo la quantità di anidride carbonica. Il vero problema è che questa anidride carbonica cattura la radiazione solare riflessa dalla superficie terrestre, e questo porta a un riscaldamento dell’intera atmosfera. Ecco perché, a livello globale, questo fenomeno non è affatto positivo.
Viceversa, con la tecnologia su cui lavoro io — e non solo io, ma anche molti altri ricercatori in tutto il mondo — si avrebbe un’opportunità diversa: utilizzare l’anidride carbonica che è già presente in atmosfera. Non ne produrremmo di nuova, ma useremmo quella che c’è già. Da lì, ad esempio, si può produrre metano. Questo metano si usa per riscaldarci, lo si brucia e si reimmette in atmosfera la stessa CO₂ da cui era stato ottenuto. In questo modo si bloccherebbe l’aumento della concentrazione di anidride carbonica, creando un ciclo chiuso in cui si riutilizza ciò che è già presente.
Quali i vantaggi concreti?
Almeno due: il primo è che si combatte il cambiamento climatico abbassando la quantità di CO₂; il secondo è che, in futuro, ognuno potrebbe produrre il metano di cui ha bisogno. E il metano è solo una delle cose che si possono ottenere: si può produrre anche etilene, che è un precursore della plastica. Si sta lavorando anche per produrre benzina, e questo aprirebbe la possibilità di continuare a usare le automobili che già possediamo, senza bisogno di passare per forza all’elettrico.
È proprio per questo che l’Unione Europea, il Canada, gli Stati Uniti stanno investendo molto in questa direzione: sarebbe una tecnologia in grado di inserirsi nelle strutture che abbiamo già, quindi con un impatto minimo sulla vita quotidiana delle persone.
Oggi, ad esempio, l’UE dice: «Compriamo tutti un’auto elettrica». Ma un’auto elettrica costa. Invece, se questa tecnologia funzionasse, potremmo continuare a usare le auto attuali. L’unico cambiamento sarebbe al distributore: invece di rifornirci con la benzina tradizionale, useremmo una benzina “verde”, ma senza modificare né l’auto né le infrastrutture.
È proprio per questo che ho deciso di dedicarmi a questa ricerca. È un lavoro molto complesso, ma se un giorno dovesse funzionare, avrebbe un impatto enorme sulla vita delle persone.
Cosa ti stimola nel tuo lavoro?
Ci sono due stimoli: da un lato la curiosità, il desiderio di capire come funziona il mondo. Fare ricerca è come risolvere un puzzle senza istruzioni. Dall’altro, la volontà di fare qualcosa di utile per migliorare la vita delle persone. In un mondo pieno di problemi, è importante che ognuno faccia la propria parte.
Molti ricercatori sono molto competitivi. Tu sembri avere un altro approccio.
Purtroppo il sistema della ricerca, soprattutto in Italia, spinge verso la competizione. I fondi sono pochi e spesso si sviluppa una mentalità individualista. Io ho avuto la fortuna di lavorare in ambienti internazionali, dove c’è più collaborazione. In Spagna, ad esempio, la mia professoressa riconosceva sempre il lavoro del team. Questo fa la differenza.
C’è un modello di ricercatore che ti ha ispirato?
Einstein è sicuramente un’icona, ma nemmeno lui ha lavorato da solo. La sua compagna, Mileva Marić, era una matematica straordinaria e ha contribuito molto alla teoria della relatività. Ma all’epoca non si riconosceva il lavoro delle donne. Lo stesso vale per Marie Curie. Il sistema tende a esaltare il singolo, ma la scienza è sempre un lavoro di squadra. E io sono molto riconoscente alla mia ex professoressa in Spagna, che ha sempre valorizzato il nostro lavoro.
Cristina Menghini
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