7 Aprile 2015
Dove ci porterà la Città Metropolitana?

07 aprile 2015
Dal 1 gennaio di quest’anno è diventata operativa la cosiddetta “Riforma Delrio”, dal nome del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che ne è stato promotore a nome del Governo Renzi. Il leitmotiv che l’ha accompagnato è stato incentrato sul risparmio dei costi della politica e la sparizione delle Provincie. Tutto questo non appare sia in realtà accaduto.
Infatti la Province, uscite dal dettato costituzionale, sono rimaste come enti di secondo livello affiancate da 10 città metropolitane tra cui quella di Torino. Che cosa significa? Che i cittadini non eleggono più i loro rappresentanti democraticamente ma sono i consiglieri comunali ad eleggersi tra loro come consiglieri provinciali o consiglieri delle città metropolitane, almeno fino a nuove disposizioni statutarie.
Per quanto riguarda il presidente della Città Metropolitana esso è il Sindaco del capoluogo, quindi, conseguentemente, per il nostro territorio, solo i torinesi potranno esprimersi su di esso.
Sulla stregua di una campagna anti-politica si sono cancellati dunque i luoghi della democrazia, i consigli provinciali, senza per questo incidere realmente sulla finanza pubblica (i rappresentanti della Corte dei Conti, in audizione alla Commissione Affari Costituzionali del Senato, lo scorso 16 gennaio 2014, avevano ipotizzato non solo l’assenza di un reale risparmio ma il rischio di un aumento dei costi).
Zoomando sulla Città Metropolitana si osserva che essa ha al cuore delle proprie funzioni una ampia potestà di pianificazione dispiengandosi sull’intero territorio della vecchia provincia di Torino: già in questo si scorge un primo elemento non positivo.
La rigidità dello schema imposto dalla norma non tiene in nessuna considerazione le specificità territoriali di una provincia caratterizzata da 315 comuni (ad esempio quella di Bologna è composta da 60 comuni) con diversificate peculiarità.
Dai comuni montani a quelli collinari fino alla pianura, comuni a forte vocazione agricola ed altri più legati a significative presenze industriali, in particolare i più piccoli, con il sistema elettorale di secondo livello adottato, dividendo il territorio in aree omogenee ed attribuendo agli eletti un voto proporzionale agli abitanti, rischiano di essere scarsamente rappresentati e quindi in difficoltà a far sentire la propria voce e le esigenze delle proprie comunità.
Questo, tra l’altro rischia di innescare una pericolosa deriva istituzionale volta a ragionare su aree omogenee e quindi destinata a fare valutazioni di tipo esclusivamente economicistico che porterebbero dritto al passaggio della cancellazione ed accorpamento dei comuni: ma i comuni non sono il presidio fondamentale del territorio?
Non sono la prima palestra dell’esercizio e della salvaguardia della democrazia della Repubblica Italiana? Non preesistono allo Stato che, da Costituzione, deve limitarsi a riconoscerli?
Ci sono poi ulteriori criticità, estremamente pratiche (ma non esaustive di quante realmente se ne possono individuare!), legate alla nascita della Città Metropolitana il cui Consiglio in queste settimane è impegnato sulla redazione dello Statuto: il problema dei fondi risicati, la questione del personale, il rischio esuberi, la dispersione di professionalità, ed in ultimo i pronunciamenti negativi della Corte Costituzionale sui decreti legge del Governo Monti sull’abolizione delle Province, segnale di una situazione legislativa quanto meno caotica.
Forse a chi ha usato la matita rossa per cancellare gli enti provinciali,occorre regalare un bel libro curato da Walter Crivellin, La Provincia di Torino (Milano, Franco Angeli editore), nella cui introduzione è riportata una efficace e sensata frase di Giovanni Giolitti: «gli enti che esistono da secoli hanno perciò stesso ragione di esistere, poiché hanno creato tradizioni, bisogni e interessi, che non si possono con un tratto di penna distruggere».
Giancarlo Chiapello
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