Le profughe ospitate nella “Casetta” delle Suore di San Giuseppe provengono da situazioni di disagio e povertà dove sono negati i diritti fondamentali. La maggior parte di loro è di fede cristiana
L’immagine è surreale. Sullo sfondo del deserto del Sahara uno stormo di fuoristrada e furgoni stracarichi di uomini e donne (difficile distinguerli perché tutti hanno il volto coperto). La località si chiama Agadès e si trova nel Niger. Una tappa strategica sulla rotta dei migranti che dall’Africa arrivano sulle nostre coste.
La fotografia ci viene mostrata da una delle donne richiedenti asilo ospitata nella “Casetta” delle suore di San Giuseppe a Pinerolo. L’abbiamo incontrata insieme ai responsabili di quello che viene comunemente chiamato CAS, cioè “Centro di Accoglienza Straordinaria”.
Mary (il nome è di fantasia) tra pochi giorni compirà 22 anni. Grandi occhi scuri, capelli raccolti in fitte treccine, un sorriso timido e tanta voglia di vivere. «Nel mio Paese, la Nigeria, ero studente – racconta in un inglese piuttosto “africanizzato” -. Poi è morto mio padre e mia madre si è risposata. I miei fratellastri mi trattavano male e non volevano lasciarmi andare a scuola quindi ho deciso di andarmene». Di qui inizia un viaggio per nulla facile. «Dalla Nigeria sono andata in Niger. Per attraversare questo paese devi avere il volto coperto come le donne musulmane di quelle parti, altrimenti non ti fanno passare ai posti di blocco delle polizia. Qui i cristiani come me rischiano anche di essere uccisi. Sono, quindi, arrivata ad Agadès, nel deserto, e di qui sono stata portata in Libia che, però, non è “posto buono”. Dalla Libia Mohammed mi ha fatto venire in Italia su un barcone».
Dall’arrivo in Libia fino alla partenza per l’Italia i racconti delle donne si fanno piuttosto nebulosi.
Ce lo spiegano Chantal Re, responsabile della Cooperativa Sociale “La Dua Valadda” cui è stato affidato il CAS di Pinerolo, e Sherif Ahmed, referente per la lingua italiana del progetto.
«Sul passaggio in Libia cala un velo di silenzio – spiega Sherif -. Tutte dicono lo stesso nome, Mohammed, che è un nome molto diffuso, quindi non molto attendibile».
«La storia – aggiunge Chantal – viene uniformata dal momento in cui arrivano in territorio libico. Tutte raccontano la stessa versione: vengono portate in una casa dove vengono violentate e all’improvviso si trovano su un barcone che le trasferisce in Italia. Chi ha pagato e come sono arrivate nessuno lo sa, neanche loro».
Che dietro a questi flussi ci sia un’organizzazione è facile da supporre ma difficile da dimostrare.
Chi sono e da dove vengono?
Le sedici ragazze ospitate alla casetta arrivano da due diversi centri. Quelle nigeriane dalla struttura di Viù mentre l’altro gruppo (originarie di Camerun e Costa d’Avorio) dal campo tendato di Settimo Torinese.
Quelle che vengono da Viù hanno già fatto un primo passo nella procedura di richiesta di asilo e hanno già il cosiddetto C3, quindi il permesso provvisorio. Per le altre i documenti verranno compilati all’interno del CAS insieme agli operatori.
«Si prevede ancora l’inserimento di altre persone – riferisce Chantal – perché la struttura ha disponibilità per 25 posti. Ad oggi non si sa ancora quale sarà l’entità e da dove avverrà il trasferimento. Dipende dall’indicazione del Prefetto. Le persone che abbiamo oggi in struttura arrivano sugli hot spot di prima accoglienza siciliani. Di solito lì stanno in media una settimana, poi vengono inviate alle prefetture del Nord Italia. In questo caso sul territorio della prefettura di Torino».
Le ospiti sono giovani donne, dai 20 ai 30 anni. Alcune hanno figli in patria. Nessuna di loro ha dichiarato di avere parenti o contatti in Italia. A Pinerolo sono arrivate a gennaio, grazie alla disponibilità delle suore di San Giuseppe che hanno messo a disposizione la casetta di via Principi d’Acaia, di solito adibita a ritiri e settimane comunitarie.
«All’interno di questo Cas – prosegue Chantal – lavora una equipe multidisciplinare. Oltre a Sherif, c’è una mediatrice di etnia nigeriana che si occupa di mediazione culturale, un assistente sociale e uno psicologo, una oss per i servizi sanitari e una figura che si segue le attività dell’assistenza domestica, riordino e pulizia».
Come occupano le loro giornate?
«Hanno attività organizzate perché uno degli obiettivi delle persone richiedenti asilo è poter imparare la lingua italiana, quindi almeno tre mattine la settimana frequentano un corso di lingua italiana con Sherif, tre pomeriggi la settima fanno attività col Cpia (Centro per l’Istruzione degli Adulti) all’Istituto “Michele Buniva”.
Con le suore sono stati organizzati una serie di laboratori di cucito, ricamo e altro che man mano si vanno a valutare in base agli interessi delle ragazze. Due suore aiutano tre signore che sono completamente analfabete».
Sherif riferisce che le ospiti hanno in media un basso livello di scolarizzazione.
Dopo la richiesta di asilo
La prospettiva di permanenza nei CAS è di un anno ma, a causa dei ritardi nella presentazione della prima istanza in commissione, si sfora sul l’anno e mezzo. Dalla prima richiesta di asilo sul territorio italiano alla prima convocazione in commissione passa un tempo lungo perché in questo momento il flusso è importante. Il passaggio successivo al Cas è un programma che si chiama Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati).
«Le ragazze potrebbero avere un permesso per un anno – prosegue Chantal -, oppure avere un percorso differenziato in base al tipo di richiesta che fanno quando sono in commissione. La richiesta viene formulata con gli operatori del Cas che preparano il libretto del richiedente con una documentazione dettagliata per definire il background culturale e le condizioni di vita nel loro paese di origine e quale è stato l’iter per arrivare sul territorio italiano. La commissione territoriale darà il parere. In questo momento il diniego è sopra il 65%».
La norma prevede che ci sia un appello. Un nodo irrisolto riguarda coloro che ricevono il doppio diniego e che restano sul territorio italiano ma non hanno il permesso. Per i paesi con i quali ci sono accordi bilaterali si prevede il rimpatrio. Per gli altri la questione resta aperta.
La decisione circa il permesso di soggiorno spetta alla commissione che è composta da più figure istituzionali e che valuta caso per caso.
«Tutte le nostre ospiti dicono di essere scappate dal loro paese per situazioni di disagio sociale dove ci sono mancanze oggettive dei diritti. Nessuna di loro, però, ha parlato di situazione di guerra o guerriglia, piuttosto di disagi e povertà. Colpisce il fatto che già quando arrivano conoscono bene i loro diritti».

Un primo bilancio
Sherif è egiziano e attualmente alloggia a Casa Chantal, proprio di fronte alla casetta. «Al momento non si sono verificati problemi particolari – racconta -. Tra loro ci sono rapporti normali che si instaurano in ogni gruppo. In caso di necessità, se ad esempio non rispettano i regolamenti, si può intervenire disciplinarmente con sanzioni ma personalmente preferisco parlare, spiegando ad esempio che qui siamo ospiti della suore e quindi è necessario mantenere un comportamento adeguato e rispettoso».
«Siamo partiti con un gruppo piccolo in modo di creare fiducia e sinergie – riprende Chantal -. Man mano che il gruppo si allarga si modificano le dinamiche. Ora siamo al 50% e stiamo andando bene. Le ragazze sono attente al regolamento. Frequentano le lezioni e hanno anche cominciato a fare la raccolta differenziata che mi sembra un grande successo. Non ci sono stati problemi nei rapporti col vicinato.
Siamo ad un mese e mezzo di attività. Dopo un semestre si potrà valutare in modo più chiaro l’inserimento delle ragazze nel Cas e nel territorio pinerolese».
Sherif ci tiene a puntualizzare che «non sono bambine. Hanno deciso di attraversare il mare, di fare un viaggio lungo e pericoloso, quindi occorre convincerle per poterle gestire».
Per loro si aprono anche prospettive di volontariato e lavoro. È già prevista l’attivazione di tirocini col comune di Pinerolo e per alcune si pensa alla gestione della cucina.

Come accogliere?
Chantal spende parole di stima per la congregazione delle Suore di San Giuseppe: «Le suore hanno fatto un bel gesto scegliendo di accogliere queste donne all’interno di una loro struttura perché è un’utenza difficile e – come dice madre Gabriella Canavesio – questa è una carità scomoda perché prevede delle difficoltà oggettive rispetto alle scelte che si fanno. Non è così facile accogliere, sia per l’ente gestore sia per l’ente che decide di andare in convenzione per ospitare».
Non tutti sono d’accordo nell’accogliere i flussi.
«I richiedenti asilo sono scomodi sul territorio perché non sappiamo da dove arrivano, se delinquono … Di loro non sappiamo tante cose. Ognuno di noi poi deve farsi la domanda se sta facendo la cosa giusta. Questa domanda ce la poniamo anche noi che siamo “dentro”. Il dato reale è che abbiamo da gestire un flusso importante di persone».
Mary, intanto, tramite WhatsApp ci invia la foto scattata ad Agadès. Lei, come tutte le altre donne, è arrivata a Pinerolo con uno smartphone, strumento che ha certamente una peso non secondario nella decisione di avventurarsi in un viaggio che cambia la vita. Quella di chi parte ma anche quella di chi, come noi, sta sull’altra sponda del Mediterraneo.

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La messa con le suore
Delle sedici donne ospiti a Pinerolo solo tre sono musulmane; le altre tredici sono cristiane e vivono con grande intensità la loro vita di fede. La domenica partecipano alla messa nella cappella delle suore animando la liturgia con i canti tipici della loro tradizione. Alcune di loro frequentano con regolarità lo spazio di preghiera della Casetta dove possono trovare una Bibbia in francese e una in inglese. Lo spazio è per tutte ma essendo la maggior parte di loro cristiana è caratterizzato dai simboli della fede cristiana.

Cristina Menghini – Patrizio Righero

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Questa fotografia è stata scattata con un cellulare ad Agadès, in Niger, tappa strategica della rotta dei migranti