Mario Pironti, medico anestesista, pinerolese, lavora a Torino. In alcune estratti del suo diario racconta la sua seconda esperienza africana: per tre settimane volontario in un ospedale di Wolisso, in Etiopia. Eccoci lanciati sulla strada e nel mal d’Africa. È una cosa che ti prende alle viscere. Ha ragione Hemingway: l’Africa ti rimane dentro come una donna che hai amato. Come i lineamenti, la voce i gesti, così la luce, i colori, i suoni, i profumi ti prendono allo stomaco e smuovono i tuoi sentimenti sino a commuoverti. Qui stanno costruendo case su case. Speriamo che i soldi non finiscano solo in tasca ai cinesi o ai tedeschi, ma che ci sia qualcosa anche per i locali. Musica reggae sparata mentre viaggiamo. Passano accanto a noi bambine che guidano un carretto o portano un carico di legna, che ad occhio e croce peserà 30 chili, con un sorriso che definire luminoso è dir poco. Là delle caprette sono pascolate da un bambino alto quanto loro. La vita s’impara a 8 anni. Soprattutto quando è breve. Qui le moschee possono sorgere a poca distanza dalle chiese, le donne possono andare in giro da sole… magari con la legna sulle spalle, con il burka in capo o con la valigia del marito in mano. Gli si chiede la strada con rispetto e rispondono senza la paura o il fastidio della gente di Torino.E infine ritrovo l’odore pungente delle corsie africane. Che reparto: lesioni di ogni tipo. Che handicap. Dove le condizioni materiali già non sono facili. Una terra incantevole per chi sta bene, forse due gradini sopra l’inferno per chi non può camminare o deve stare mesi a letto. Un ortopedico prega per il paziente prima dell’intervento, dopo avergli spiegato i rischi. Mi immagino la reazione della gente in Italia a una simile scena. Imparo qui che non tutto è nelle nostre mani. La notte non dormo tanto. I motivi possono essere parecchi: caffè, njera, ricordi dell’anno scorso, gli scritti dei volontari sul quaderno della guesthouse, il senso d’impotenza che pervade un po’ tutti. Frasi di Kierkegaard e del Vangelo. Forse penso soprattutto a questa gente, alla loro vita dura e a quante cose brutte possono loro capitare mentre noi stiamo qui protetti, a cos’è per loro comunicare, socializzare, esprimersi con un simbolo, cercare l’anima dentro le cose. Mi chiedo chi è più primitivo tra noi e loro. Insomma studio antropologia a cazzotti nello stomaco.