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Pianura  

Cascina Nuova, vita nuova

Cascina Nuova, vita nuova

Roletto. Compie vent’anni la comunità del Gruppo Abele per il recupero degli alcoolisti Tutti vogliono e predicano “libertà” eppure mai come si moltiplicano le dipendenze. C’è chi si droga, chi si perde nel gioco, chi diventa schiavo del computer, chi si butta a capofitto nel cibo, chi il cibo lo rifiuta per rientrare in certi canoni di bellezza, chi acquista in continuazione e smodatamente qualsiasi cosa, chi si riempie la casa di oggetti, chi cerca a tutti i costi le forti emozioni, chi non può fare a meno del fumo. E poi c’è chi lega la sua vita all’alcool. Ed è questa una delle dipendenze più subdole. L’alcool non è una cosa proibita, non è eccessivamente costoso, è facilmente reperibile in qualsiasi supermercato, inizialmente è pure buono per il palato, viene percepito quasi come cura. In principio il bere aiuta a relazionarsi, in quanto toglie le inibizioni, scioglie la lingua, dà energia e coraggio. Purtroppo con l’abuso, taglia ogni legame sociale e provoca immensi danni al corpo e alla mente, mentre la voglia di bere diventa incontenibile e incontrollabile. L’abuso di sostanze alcoliche ha la sua nascita nella notte dei tempi. Fonti storiche riportano casi di abuso o dipendenza da alcool già presso le civiltà egizia e babilonese e ci sono cenni di questo anche nella Bibbia. Si tratta dunque di un male antico che ha accompagnato l’umanità fino ai giorni nostri e che non accenna ad essere debellato.
Proprio per aiutare chi è caduto nella dipendenza da alcolici sono nate in tutta Italia diverse organizzazioni con lo scopo di disintossicare e accompagnare le persone in un cammino di recupero. Fra le tante, a Torino nasce l’associazione Aliseo, che ha una comunità residenziale terapeutica a Roletto: la Cascina Nuova, in via Santa Brigida. Ne è responsabile Giulio Andreoli, che racconta: «L’associazione Aliseo fa parte delle iniziative del Gruppo Abele e nasce nel 1987, dall’esigenza di distinguere la dipendenza da alcool dalle altre dipendenze. Dal 1989 inizia il servizio di accoglienza e riabilitazione. La Cascina Nuova opera come comunità terapeutica residenziale dal 1992 e propone un progetto individualizzato dalla durata media di circa 18 mesi. In cascina risiedono 10–12 persone che sono seguite ed accompagnate nel loro programma di recupero dal responsabile e da 7 operatori che assicurano la loro presenza 24 ore su 24. Mentre in passato si usufruiva prevalentemente di volontari, ora gli operatori devono necessariamente essere figure professionali specializzate, quali psicologi, psicoterapeuti, operatori OSS. Sono persone che vedono il loro lavoro più come un servizio, che non come una prestazione puramente professionale. Ci sono inoltre un paio di alloggi in Pinerolo che ospitano alcune persone al termine del cammino di recupero. Qui sperimentano una ritrovata autonomia personale ed un primo reinserimento nella vita normale. L’età media dei componenti è fra i 35 e i 40 anni».
Le persone che arrivano in comunità sono, generalmente, mandate dai servizi pubblici socio-sanitari per le tossicodipendenze e quasi sempre sono sottoposte a trattamento farmacologico. Tempo addietro, le persone sotto trattamento farmacologico non potevano accedere alle comunità e i programmi delle comunità erano standardizzati ed uguali per tutti. Ora si tende sempre più a cercare percorsi individuali, tenendo conto delle diverse situazioni ed esperienze personali. «Chi entra in comunità – spiega Andreoli – ha già acquisito la consapevolezza della gravità del suo problema. Uscire dalla dipendenza da alcool è molto difficile. La percentuale di successo potrebbe essere calcolata attorno al 35%, ma in effetti non si è in grado di sapere se la rinuncia al bere e il cambiamento di stile di vita durino nel tempo e per quanto. Ci vorrebbero ingenti risorse per poter seguire ed accompagnare il reinserimento nella società di chi è riuscito a liberarsi dalla schiavitù dell’alcool.
Chi dipende dal bere ed approda in comunità ha comunque grossi problemi relazionali, quasi sempre ha perso ogni rapporto sociale, sia nell’ambito della famiglia che del lavoro. Se già non c’erano prima, sono sorti problemi comportamentali. Spesso chi beve è passato già attraverso l’uso di altre sostanze oppure ha avuto esperienze carcerarie. Qualcuno, pur di uscire dal carcere, comincia a bere per riuscire ad entrare in una comunità. Sempre più spesso si tratta di persone che non hanno alcuna manualità, che non hanno specifiche capacità. In questi casi il reinserimento è difficile. Specie in questi tempi di crisi, trovare un’occupazione a queste persone è praticamente impossibile e conseguentemente non si trova nemmeno una casa. La permanenza in comunità è centrata su un percorso quanto più possibile personalizzato.
L’approccio è di tipo pedagogico. Si cerca di lavorare sulla conoscenza di sé, sull’elaborazione della dipendenza, sulla riscoperta delle proprie capacità, sulla rielaborazione del proprio passato. Tutti devono rimettere completamente in discussione il loro stile di vita, attraverso colloqui e attività di gruppo. Devono reimparare a prendersi giornalmente cura di sé, a lavorare, cercando di fare bene, a operare insieme per poter tornare a stare nella società ed a relazionarsi con gli altri. In cascina ci si misura con il lavoro reale e con la natura. Si impara a rispettare l’ambiente, a curarsi dell’ecologia. I residenti si occupano dell’orto, di un mirtilleto, di legname e di una serie di animali (galline, capre, asino). Tutte le coltivazioni sono biologiche. Tutte queste attività, svolte con tempistiche abbastanza lente, permettono di riaccostarsi lentamente al mondo del lavoro. Sono previsti anche dei brevi periodi di tirocinio lavorativo presso imprese della zona. Chi esce, quasi sempre mantiene i contatti con la comunità e alcuni decidono poi di dare il loro contributo facendo del volontariato».
Andreoli ci spiega ancora che ogni persona che passa attraverso i percorsi della comunità ha alle spalle storie diverse, diversi motivi di disagio e sofferenza. «A stare con queste persone – dice – si impara a fare del bene, a dimenticare, a vedere i tanti piccoli miracoli che succedono nella quotidianità». Un caso fra tutti lo ha colpito particolarmente. Un militare di carriera, caduto in depressione dopo aver partecipato ad una delle missioni di pace del nostro esercito e caduto nelle spire dell’alcool per un disturbo post-traumatico da stress. Quest’uomo è stato accompagnato nel suo percorso riabilitativo, si è sentito aiutato, ha sperimentato un vicinanza anche affettiva ed è avvenuto il miracolo: ha smesso di bere, si è rifatto una vita, ha trovato una compagna, ha ripreso il lavoro all’interno dell’esercito, che lo ha riaccolto, affidandogli incarichi civili. Una storia fra tante, in questo caso un successo e un motivo di speranza.

Claudia Dal Palù L'esterno della struttura

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