17 Ottobre 2023
Al Circolo Sociale si è svolta la premiazione della 34esima edizione del concorso letterario "Città di Pinerolo"
Domenica 15 ottobre, presso il Circolo Sociale, si è svolta la premiazione della 34esima edizione del concorso letterario “Città di Pinerolo”. Sul gradino più alto del podio Maurizio Bacconi di Roma con la poesia “Le notti di Diana”.
Per la sezione “racconti” si è aggiudicato il primo premio il pinerolese Francesco Santoriello, con “Pata pata”, una commovente storia di immigrazione. Un tema che è stato anche proposto in una speciale sezione a cura dell’Anpi, ricordando l’articolo 10 della Costituzione in cui si sancisce il dovere di concedere il diritto d’asilo in certe circostanze, e che ha riscosso una grande partecipazione, compresa quella di una classe della scuola secondaria di primo grado “Silvio Pellico” di Pinerolo.
LE NOTTI DI DIANA (*)
Di Maurizio Bacconi
Dove vai mamma, perché mi lasci qua?
La notte senza te non ha più stelle
le docili carezze, neanche quelle
è buio pesto, è cruda la realtà!
Ti porta via lo spirito ribelle
è lunga ormai l’attesa: finirà?
M’inghiotte un gorgo senza umanità
un brivido mi scorre sotto pelle.
Ho fame mamma, e tu non sei con me
mi nutro adesso solo di speranza
il tempo passa, ma io ti rivedrò!
Ho sonno mamma, adesso dormirò
i pianti, queste lacrime a distanza
il vento le potrà portare a te…
Sola, senza un perché
metto le ali, volo via dal letto,
mi chiamo Diana, sono un angioletto!
(*) Diana Pifferi, morta di stenti a Milano all’età di 18 mesi
Pata Pata
di Francesco Santoriello
Me lo sentivo, sarebbe stata una giornata bellissima: finalmente avrei potuto giocare con un pallone vero! Altro che palla fatta con gli stracci!
Avevo appena cominciato a fare due tiri di riscaldamento, immaginando di calciare come Maradona, quando mia madre affacciandosi dall’uscio di casa nostra mi urlò: “Kami, preparati! Partiamo per un viaggio!”. Io ero molto confuso, pensavo tra me e me: “Ma quando, come, e soprattutto perché?”. Col passare delle ore cominciavo a sentire una strana felicità; in effetti non avevo mai fatto un viaggio in vita mia. Corsi subito in casa, arraffai in mezzo alla solita confusione un po’ di maglie, pantaloncini, e un paio di scarpe da ginnastica che padre Romeo della missione comboniana mi aveva portato il giorno prima, e misi tutto in una busta di plastica verde.
Salutai con grandi abbracci e pacche sulle spalle i miei amici di una vita con la promessa di rincontrarci in Europa. Avevo un sorriso smagliante stampato in faccia, ero felice e insieme agitatissimo. Non ero mai uscito dal Niger. A differenza mia, mamma era piuttosto preoccupata, andava di qua e di là senza combinare nulla e ogni tanto accarezzava qualche oggetto. Così mi decisi a chiederle:” Mamma che succede?”. Mia madre mi guardò con quegli occhi dolci che trasmettevano tranquillità e serenità e mi disse: “Nulla, tesoro. Ora andiamo che altrimenti partono senza di noi.”. Mi afferrò per il braccio e mi tirò fuori dalla casa.
Le chiesi nuovamente:” Mamma ma almeno dimmi dove stiamo andando, la meta mamma, la meta?”, e mia madre rispose senza troppa convinzione: “Raggiungiamo papà.”. Mamma mi pose molta fretta: diceva che saremmo dovuti arrivare in tempo per il lunedì, il giorno del Grande Convoglio. Ci trovammo alla fermata del bus che prendevamo una volta l’anno per andare in città, ad Arlit, per fare compere. Salimmo velocemente per prendere i primi posti: ci piaceva guardare la strada, i villaggi, la gente. È vero, erano due giorni di viaggio, ma era bellissimo. Era un mondo di poveri, proprio come me e mamma, ma ricco di calore e di umanità. Arrivammo che era l’alba del lunedì, in tempo per prendere la Carovana del deserto. Mamma mi spiegò che con una decina di giorni di viaggio saremmo arrivati in Libia e di lì poi ci saremmo imbarcati per l’Italia per raggiungere poi finalmente la Germania dove c’era papà ad aspettarci. L’autista ci fece salire con gesti rapidi, dopo aver contato le banconote che mamma gli aveva consegnato. L’allegria del viaggio in autobus si consumò facilmente. Eravamo 42 persone, tra uomini, donne e bambini. Silenziosi, esitanti, sì, anche sospettosi l’uno degli altri. Il deserto s’allargava davanti a noi, il sole a picco e il calore ben presto avvolsero tutto in una nuvola di angoscia. Dopo una settimana, eravamo tutti disidratati, stanchi, affamati. Incattiviti. Era tutto deserto e cambiavamo strada ogni due giorni, per evitare controlli, perché al carovaniere arrivavano sul satellitare messaggi che lo avvertivano dei posti di blocco che ci avrebbero respinto. E così, il convoglio si allontanava sempre di più da fonti d’acqua e da piccoli ripari. Il primo a lasciarci fu il vecchio Abdul. Pochi denti ma un sorriso travolgente come se ne avesse avuti 32. Raccontava barzellette divertentissime per alleviare la fatica del viaggio. Desiderava raggiungere l’Italia per vedere per la prima volta i suoi nipotini. Un infarto fermò il suo sogno.
Il capocarovana ordinò a due giovani di rimuoverlo e gettarlo lì, in mezzo al nulla. Nessuno osò dire una parola. Io non avevo mai visto una morte in diretta, e nemmeno un cadavere trattato così. Nel mio villaggio il lutto durava tre giorni e tutti consolavamo i parenti del defunto. E ora, di tutto quello che sapevo sulla morte, non era vero più niente.
Quella fu la prima delle numerose volte in cui io stetti in silenzio a provare ad essere invisibile, e a fare finta di non avere visto. A non sentire tutto quel dolore che mi dava vedere un vecchio con il quale avevo scherzato fino ad un momento prima, buttato lì come un sacco della spazzatura. Ma del resto cosa avrei potuto fare? Io, un ragazzo di quattordici anni?
Avevo paura di essere picchiato. Paura, per la prima volta, di morire. Ma cosa eravamo diventati? Sulla soglia del deserto libico la nostra carovana incontrò una famiglia composta da papà mamma e tre bimbi, il piccolo ancora appeso al seno della mamma. Implorarono Karim di prendere il poco denaro che potevano offrire in cambio di un passaggio; al suo diniego il papà cominciò a gridare: “Non senti rimorsi ad accumulare denaro sulla pelle di altri esseri umani, a diventare ricco sulla sofferenza?”.
Il nostro conducente, per la prima volta, abbandonò i suoi lunghi silenzi e i panni dell’aguzzino e iniziò a raccontare la sua storia: “Prima portavo i turisti nel deserto in Libia, guadagnavo e potevo far vivere dignitosamente la mia famiglia. Poi, di colpo, sono rimasto senza lavoro, ridotto alla fame. Quando si diventa poveri si perde la possibilità di scegliere tra bene e male, si diventa bestie che provano ad arraffare qualunque briciola per arrivare almeno al giorno successivo. È stato così che ho iniziato a trasportare voi. All’inizio – proseguì – anche io avevo problemi morali, io, il mite Karim a fare la tratta di esseri umani, come la chiamano i giornali; poi ho pensato che tanto questa gente il viaggio lo vuole fare, in un certo modo li aiuto, cerco di ridurre i rischi e la sofferenza. E poi, meglio io che i libici: fino a due anni fa, c’erano i libici a trasportare, lasciavano la gente nel deserto con un inganno per farli crepare e guadagnare il doppio. Ci siamo parlati, abbiamo deciso che non poteva andare avanti così, e ora prima di partire i miei clienti li sfamo, fanno una doccia, do loro un telefonino perché chiamino casa. I miei mezzi hanno tutti il gps. Se c’è un guaio nel deserto vado ad aiutarli, nessuno più si perde. E poi, se non ci fossero loro, i migranti, se qui nel deserto non c’è offerto altro, di cosa viviamo, come sfamiamo i figli? Lo sanno anche i muri che la desertificazione è passata come l’angelo della morte sulle nostre terre: non piove, le zolle di terra si aprono, non possiamo coltivare nulla né vedere i raccolti di un tempo. Guardiamo i nostri figli morire”.
Le sue parole caddero in un silenzio assordante, aveva ragione anche lui. Forse se avesse fatto la guida turistica come una vita fa, avrebbe accolto con simpatia la famigliola, dato loro un passaggio gratuitamente e coccolato il bimbo mettendo le sue manine sul volante, ma qui è l’inferno e ciascuno non può avere sentimenti umani, non può provare a sentire pietà, compassione, dolore. Era una situazione irreale: da vittime comprendevamo anche le ragioni dei carnefici. Dopo altri 10 giorni, in trenta arrivammo in Libia. Sul confine qualcuno provò ad attraversare il deserto a piedi, altri cercarono punti di sosta, altri provarono a ritornare indietro.
Purtroppo per noi, i militari ci scoprirono. Ci fecero scendere. Ci portarono in un campo di detenzione. Il militare, prima di farci entrare, ordinò a tutti di consegnare soldi, cellulari, ogni cosa che avevamo. Lì era la prassi, mi spiegava un ragazzo accanto a me: ogni ragazzo di colore che arrivava veniva derubato e picchiato, prima di essere arrestato. L’uomo che era di fronte a me finse di non avere denaro: in tasca aveva la sua unica speranza di costruirsi un futuro. Ma il militare lo perquisì e quando trovò le banconote in tasca lo fucilò davanti ai miei occhi. Ci ordinarono di buttarlo davanti ai cassonetti della spazzatura. Ordinarono anche a me di dare una mano. Separarono ben presto le donne dagli uomini. Io venni separato da mia mamma. Un dolore immenso, appena attutito dalla flebile speranza che un giorno sarei riuscito a rivederla. Ci facevano lavorare tutto il giorno, senza sosta. C’era un ragazzo con cui feci subito amicizia. Si chiamava Ezechiel. Era lì da due anni. Mi raccontò la sua storia: era originario del Ciad. Era scappato da casa con sua sorella più grande, alla volta della Francia. Anche loro erano stati fermati, ma la sorella aveva provato a scappare. Fu catturata, stuprata e uccisa. Dopo tutto questo dolore, coltivava comunque il sogno di andare in Francia, sarebbe partito proprio quella notte. Arrivò la sera, eravamo in 200 e ci misero tutti in una piccola stanza con solo una finestrella. Non riuscivo a dormire, sentivo Ezechiel che si preparava per il grande viaggio. Pregò, poi alzò gli occhi verso il cielo, e tra le lacrime, disse:” Sorellona, questo lo faccio per te!”. Mi venne a salutare, ci abbracciammo. L’avevo conosciuto quella stessa mattina, ma la sera eravamo abbracciati come se ci conoscessimo da anni. Si arrampicò sul muro utilizzando come appiglio alcune crepe. Riuscì a passare attraverso la finestrella, e mi salutò con la mano. Provai ad immaginare i suoi movimenti.
In quel silenzio assordante sentii due colpi di fucile, l’avevano visto e l’avevano ucciso. La mattina dopo ero definitivamente rassegnato, consapevole del mio destino. Vidi anche il corpo del povero Ezechiel. Ma ormai non provavo nulla. Il dolore si era impossessato di me, non riuscivo a provare altre emozioni. Ero finito all’inferno.
Chiesi a un ragazzo: “Senti, ma secondo te chi finanzia questi campi?”. Lui mi rispose sgarbatamente:” Non lo so!” Un militare, che ci aveva sentito, ci disse: “Te lo dico io che ci manda i soldini: l’Italia. Sotto i tanti accordi diplomatici tra i nostri ministri, questo che vedi, lo permette l’Italia “ Proseguì, guardando il mio viso sbigottito:” Esatto, proprio la nazione in cui volete andare. Sono loro che ci pagano per far questo, sono loro che pagano il nostro generale, Bija.” e scoppiò in una risata sadica. I giorni passavano lavorando, fino al giorno in cui alcuni uomini armati si introdussero nel campo. Erano soldati della resistenza venuti a liberarci. Uccisero tutti i militari e ci fecero uscire da quelle gabbie in cui eravamo reclusi. Corsi subito nel campo lì vicino dedicato solo alle donne, per trovare mia madre. La trovai, era magrissima, scavata in volto, ma lei, a differenza mia, conservava ancora un po’ di speranza. Con un’altra decina di uomini ripartimmo verso il mare. Furono giorni stancanti, tutto il tempo sotto il sole. Ci fermavamo solo due ore a notte, per mangiare qualcosa e per dormire. Ma finalmente arrivammo a Sirte. Qui ci faceva da guida un vecchio uomo, che conosceva tutti. Ci facemmo dire dove ci saremmo potuti imbarcare per andare in Italia, e lui ci spiegò tutto per filo e per segno.
Arrivammo ad un piccolo porto nella cui rada era attraccato un gommone grigio, molto lungo. C’era una lunga fila di persone, in silenzio. Capimmo subito che quello sarebbe stato il nostro passaggio verso la Fortezza Europa.
Ci mettemmo in coda e aspettammo lì circa un’ora prima di salire. Quando fummo finalmente davanti all’uomo che guidava la barca, vidi mia mamma tirare fuori dalla sua tasca un rotolo di dollari tenuti insieme da un elastico. Non sapevo come avesse fatto ad ottenerli e non lo so tutt’ora. Mi vengono brutti pensieri e faccio fatica a scacciarli.
L’uomo sgarbatamente aprì la sua grande mano, dove mamma posò in fretta i dollari, e disse:” Siete solo tu e il ragazzo?”; mia madre gli rispose flebilmente: “Sì”. Egli contando le banconote disse:” Dovrebbero bastare.”. Ci fece segno di salire. La guida ci disse anche che il signore della nave si chiamava Jehad. Era un passeur. Jehad avviò il motore e partì.
Si era fatta ormai sera e dopo tutte queste ore di viaggio mi facevano male i piedi. Fu all’inizio una sensazione di riposo quella che accompagnò le mie prime ore di navigazione su quel gommone carico di gente a dismisura. Dopo un po’ fermo in quella posizione, iniziarono i crampi. Se spostavo anche solo di un centimetro il mio piede, il ragazzo davanti a me si svegliava e iniziava a lamentarsi. Soli in mezzo ad un mare nero ormai eravamo illuminati unicamente dal chiarore della luna. Tutt’intorno c’era solo un silenzio profondo, quasi assordante. Sentivo unicamente lo sciabordio delle onde sul bordo del gommone. Per fortuna ogni tanto appariva qualche rada stella nel cielo a tenermi compagnia. La prima notte non dormii. Fui svegliato all’improvviso da qualcosa che accadeva a poppa. In fondo alla barca un ragazzo magrolino urlava e si contorceva in modo strano, diceva di vedere cose non c’erano: così avevo visto fare ad un uomo nel mio villaggio. Era impazzito. Jehad si alzò e lo spinse in acqua. Era tornato di nuovo il silenzio assordante che mi aveva accompagnato fino a quel momento. La barca puzzava di gasolio e di morte. Riuscivo a rimanere vivo grazie al pensiero della meta. Non vedevo l’ora di incontrare mio padre. Ormai eravamo su quel barcone da quattro giorni.
Il ragazzo davanti a me si era addormentato da due giorni, forse per un colpo di calore; così chiesi a mia mamma: “Mamma, ma perché quel ragazzo dorme così tanto?”, e mia madre rispose: “E’ molto stanco.”. Guardai mamma e mi accorsi di colpo che il suo volto era straziato da tutte quelle ore di sole, le sue labbra erano screpolato, gli occhi secchi e arrossati, non aveva più la frenetica lucidità che la contraddistingueva. La sua pelle non aveva più lo stesso odore, era ruvida. Era debole. Quando mi accarezzava le sue mani non erano più morbide come un tempo. Era arrivata la sera del settimo giorno. Mia madre guardandomi, cercando di nascondere le lacrime con un bel sorriso, mi disse:” Kami, fai il bravo ragazzo e non muoverti. Ora mamma si addormenta e raggiunge il tuo papà.”. Io annuii. Quella notte non c’era nemmeno la luna. Ero circondato dall’acqua. Erano tutti intenti a pregare, così per non addormentarmi, mi unii anch’io al coro della barca. Iniziai a piangere e poi ad urlare. Nessuno poteva sentirmi. Dov’era Allah? Possibile che nessuno al mondo avesse pietà di noi? Alzai la testa e con le ultime forze che mi rimanevano, gridai. Nulla.
Ero solo, come erano soli i miei compagni sulla barca. Non avevo più le forze di far qualcosa. Così decisi di arrendermi, mi strinsi a mia madre aspettando che quel sonno infernale venisse a prendere anche me.
Fui svegliato dalle luci di una barca. Si accostò a noi. Io ero confuso, non capivo nulla, tenevo stretta a me mia madre, che continuava a dormire… Era una barca meravigliosa, sembrava uscita dal disegno di un bambino. Lo scafo era bianco e rosa brillante ed era decorato con un’opera d’arte che raffigurava una bambina con un giubbotto di salvataggio che teneva un salvagente a forma di cuore. Si chiamava Luise Michel. Gli uomini della barca di colpo mi presero e cercarono di portarmi sulla loro nave, ma non riuscivano a staccarmi da mia madre, ero avvinghiato a lei con tutte le mie forze, e non l’avrei mai abbandonata. Mai. Così decisero di portare anche lei a bordo. Una volta sulla nave mi addormentai. Mi svegliai su un lettino in ospedale. Mi stava visitando un uomo sulla sessantina, con gli occhiali sulla punta del naso e con i capelli grigi. Mi alzai di scatto, impaurito, e lui subito disse:” Ciao! Stai tranquillo ti stavo solo visitando, sono il dottor Bartolo. Ma per te sono Pietro.”. In quel momento, però, pensavo solo a mamma, così gli chiesi: “Dove si trova mia mamma?”. Il dottore si sedette sul lettino e mi disse:” Ragazzo mio, mi dispiace ma tua mamma non è sopravvissuta. Era già morta sul barcone, però hai fatto bene a portarla sulla nave, le hai dato la possibilità di una sepoltura. Siamo a Lampedusa, qui gli abitanti cedono i loro loculi per seppellire i migranti, tua mamma sarebbe fiera di quello che hai fatto. Questa tradizione ce l’hanno insegnata gli antichi Greci, come Antigone che decise di dare la sepoltura al fratello Polinice, anche se egli aveva ucciso il proprio fratello per il potere sul regno, e quindi non aveva diritto alla sepoltura. Esistono principi che sono scritti nelle nostre coscienze prima ancora che nelle leggi. Ad esse si deve sempre dare ascolto. Anche se sono contrarie alle leggi dello Stato. La sepoltura a Lampedusa è perciò un modo per restituire dignità a persone a cui è stata sottratta, è un modo per far capire che dobbiamo restare umani.”.
Per la prima volta, distrutto dalla morte di qualcuno che amavo con tutto il mio cuore, più della mia stessa vita, il dolore ritornò come un sentimento profondo e non come violenza. Ero rientrato nel circolo della vita, e mamma con me. Tutto riprendeva un senso. Mi venne quasi spontaneo canticchiare la canzone che mi mamma mi cantava da piccolo. Non sapevo né il titolo né l’autore, ma per me era importantissima quella canzone, era mamma:” Saguquga sathi bega nantsi Pata Pata, Saguquga sathi bega nantsi Pata Pata…”. Il dottore si girò e mi disse:” Come conosci Pata Pata di Miariam Makeba?”, io allora gli dissi:” Me la cantava mi madre da piccolo.”. Il dottore mi guardò e mi disse:” Ti va di visitare la casa sua in Italia?”. Io feci sì con la testa. Aggiunse:” Miriam Makeba è stata la più grande cantante africana. È morta durante un concerto proprio a Castelvolturno, in Italia. Allora si disse che la cantante era morta in Africa, perché Castelvolturno è un pezzo di Africa in Italia”.Qualche giorno dopo Pietro mi aiutò a preparare le valigie, e mi diede il biglietto per Castelvolturno; non sapevo nemmeno dove fosse questa città. Mi accompagnò all’aeroporto e mi diede dei soldi per l’albergo. Presi il mio primo aereo, ero ansioso ma felice.
Arrivato a Napoli, da lì presi l’autobus e giunsi a Castelvolturno. Mi accorsi subito che era un posto poverissimo pieno di ragazzi di colore come me, e parlando con alcuni volontari, mi accorsi che quei ragazzi avevano la mia stessa storia. Ero arrivato nella mia nuova casa. I volontari mi invitarono anche a scrivere cosa volevo diventare nei 10 anni successivi. Il foglio su cui dovevo scrivere aveva come titolo in napoletano “Vuless, vuless” che in italiano significa vorrei, vorrei. Io su quel foglio scrissi: “Vorrei difendere i diritti delle persone come me, di quelli che non hanno voce per protestare, né soldi per cercare la giustizia.” Sono passati ormai dieci anni e io sono diventato un avvocato. Se avessi dovuto vivere i miei anni in Italia in base a quello che avevo visto nel mio viaggio all’inferno, avrei spacciato, rubato, ammazzato. Sarebbe stato il mio destino e io non avrei avuto nulla da rimproverarmi. Invece, ho studiato e lavorato come lavapiatti. Non sarebbe stato giusto, non per me, ma per tutte le persone che avevano provato ad arrivare in Italia e avevano perso la vita durante il tragitto; come Ezechiel, mia madre, e le migliaia di ragazzi che ancora oggi sono bloccati in Libia.
Non mi ha contaminato il male. Io penso che non sia vero che il male ci contamini. Non sempre e non del tutto. Può farlo solo parzialmente, o per un tempo determinato. Abbiamo, il più delle volte, la possibilità, anche solo minima, di scegliere. L’unico criterio di scelta deve essere “restiamo umani”. Oggi a ventisei anni posso dire: “Non ho un destino. Ho solo dei sogni.” Tanti.
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