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Giovani e lavoro: binomio impossibile?

Giovani e lavoro: binomio impossibile?

Le iniziative del centro per l’impiego di Pinerolo

Sul territorio di competenza del centro per l’impiego di Pinerolo i disoccupati sono circa 12.500. La situazione è estremamente complessa e pesante. Anche per il dilagare del lavoro sommerso o “nero” che dir si voglia. Tra i disoccupati e sottooccupati, moltissimi, come nel resto del paese, sono giovani under 30. Per questo, spiega il responsabile Renato Zambon «il centro per l’impiego di Pinerolo ha attivato una serie di incontri rivolti agli studenti del quinto anno delle scuole medie superiori. Sono quelli che si affacciamo sul mondo del lavoro e spesso si trovano impreparati anche solo nel redigere un curriculum europeo o nell’affrontare un colloquio di lavoro».

Così è nato il progetto dei “lunedì giovani” con una serie di incontri mirati. Alcuni sono già stati presentati, altri sono in programmazione per i prossimi mesi.

La metodologia è interattiva e prevede esercizi di gruppo, anche con video guide, filmati, strumenti ad hoc per sviluppare la capacità di ognuno di individuare e valorizzare le proprie esperienze e le competenze.

Tra le tematiche proposte anche le prospettive del mercato del lavoro europeo, l’utilizzo delle nuove tecnologie e del web (motori di ricerca dedicati, social network, siti web aziendali). «Spesso i giovani – prosegue Zambon – non si rendono conto delle conseguenze di un utilizzo troppo disinibito dei social network. Quello che si pubblica su facebook, ad esempio, viene visionato dalle aziende prima di procedere ad un’assunzione. E certe foto non sono certo un buon biglietto da visita!». Su questo tema specifico si svolgerà un incontro lunedì 10 marzo presso la sede del CPI Pinerolo (C.so Torino, 324).

Altre tematiche affrontate nell’ambito dei “lunedì giovani”: la formazione professionale (incontro in programma per il 24 marzo), lavoro e legalità, diventare imprenditori e le agenzie per il lavoro (in data e luogo ancora da definire).

«Il bilancio degli incontri svolti fino ad ora – conclude Zambon – è più che positivo. I giovani si sono mostrati molto attenti e disponibili a mettersi in gioco. Con questo progetto ci muoviamo nella direzione di offrire loro qualche strumento in più per orientarsi nel variegato e complesso mercato del lavoro di oggi e, soprattutto, di domani».

Piccoli ma concreti segnali che si pongono, tuttavia, in un panorama tutt’altro che roseo.

 

 

Una storia di ordinaria disperazione

Il suo nome è Giorgio classe 1988. Da sei anni vive con la compagna di ventiquattro anni e con i loro due figli, sei anni il maschietto e quattro la femminuccia. Una famiglia che dovrebbe vivere nella serenità e nella normalità delle cose belle e semplici. Così però non è. Giorgio è disperato. Da qualche mese ha perso il lavoro nell’azienda di Torino in cui era impiegato con un contratto a termine, ma che poteva potuto essere rinnovato, o trasformato in contratto a tempo indeterminato. Poi quell’incidente che gli impedisce di recarsi al lavoro, il contratto che scade e la prospettiva di un lavoro più stabile e sicuro che sfuma. Da allora per tirare avanti la sua occupazione è raccogliere ferro insieme al papà, anche lui disoccupato, a soli cinquantasei anni. Prima il padre faceva l’autotrasportatore, ma la ditta per cui lavorava è fallita, ha dovuto chiudere e lo ha lasciato a casa. Per un po’ c’è stato il sussidio di disoccupazione, ma tra qualche giorno finirà anche quello e non ci saranno più soldi per dare un piccolo aiuto a Giorgio ed alla sua famiglia. Raccogliere ferro è un lavoro duro, che rende poco, ma bisogna pensare a chi è a casa ad aspettare e così, ogni mattina, alle cinque Giorgio si alza e cerca di capire dove poter andare per cercare i rifiuti di ferro che gli danno da vivere. Caldaie arrugginite, cerchioni di bicicletta, attrezzi in disuso, tutto va bene, ma ci vuole forza fisica e bisogna essere in forma.

Giorgio si alza in piedi, scopre l’addome e mostra una recente cicatrice, ancora coperta dalla garza. «Sono stato operato d’urgenza per una appendicite-peritonite appena dieci giorni fa e già da qualche giorno sto lavorando, in queste condizioni». Non nasconde un moto di rabbia e sconforto e aggiunge «Ho cercato dappertutto, sono disposto a fare qualunque lavoro, ma niente, niente e ancora niente…». È evidente che la sua situazione è insostenibile e che è ormai arrivata ad un punto critico. Giorgio però non è solo, con lui c’è un amico, Massimo, cinquantun anni, titolare di una piccola attività commerciale che, per ora, riesce ancora a sostenersi ma che non dà utile. Anche lui non potrebbe mantenersi se non ci fosse l’aiuto della mamma. Giorgio e Massimo si sono conosciuti un giorno emblematico: il 9 dicembre, giorno d’inizio della nota azione di protesta. «Ci siamo visti alla rotonda “di Bianciotto” – racconta Massimo – ma la vera amicizia è nata solo in seguito, quando ci si è ritrovati in piccoli gruppi per approfondire le problematiche e le istanze messe in luce dal movimento di protesta. In quel periodo ci siamo conosciuti meglio ed io mi sono preso a cuore il suo caso, per la giovane età, per i due figli piccoli e, soprattutto, per aver visto così ferita la dignità di un ragazzo che non chiede la carità, ma solo di poter lavorare». Giorgio annuisce e, prima di congedarsi, aggiunge «È un momento molto duro e sono stato obbligato ad accettare qualche aiuto dagli amici, ma io non voglio questo. Alla fine Massimo mi ha convinto a venire al vostro giornale per raccontare la mia storia. Spero che possa leggerla qualcuno in grado di aiutarmi a trovare un lavoro. Adesso torno a casa, mi stanno aspettando. Anche questa volta mi chiederanno come è andata… è tanto tempo che aspettano una buona notizia».

 

Massimo Damiano

Se qualcuno avesse una proposta di lavoro per Giorgio può fare riferimento alla redazione di Vita: 0121.37.33.37

 

Per gli stranieri una fatica in più

Chi se li ricorda ancora i profughi della Libia? Non sono ancora passati tre anni dall’esperienza della loro accoglienza nel pinerolese e già sembrano un lontano ricordo. Alcuni sono tornati in patria – sono per lo più africani sub sahariani – altri hanno travato un lavoro in Italia o in Europa. Qualcuno è rimasto qui. Ospite magari di qualche privato che ha aperto il cuore e la casa a questi giovani disperati. Lontani dalla loro famiglia. Lontani dal loro paese. Lontani da tutto. Alcuni di loro hanno seguito un percorso formativo e si sono inseriti nel mondo del lavoro. O in quella che è la brutta copia del mondo del lavoro. Giorgio D’Aleo, coordinatore del museo dell’emigrazione di Frossasco, ha presente più di un caso. «Spesso questi giovani – racconta – vengono palesemente sfruttati: lavorano in nero nonostante ripetute promesse di contrattualizzazione e in alcuni casi vengono negati loro anche diritti elementari».

Destino comune anche agli italiani si potrebbe pensare. «Questi ragazzi – spiega però D’Aleo – non hanno alle spalle alcuna rete sociale. Sono soli e non possono fare affidamento su nessuno. Inoltre il loro status di stranieri accolti per motivi umanitari – a differenza dei rifugiati politici – limita le possibilità di accedere ad alcuni servizi, come ad esempio i percorsi di formazione. Le istituzioni che concedono loro il permesso di soggiorno non si curano poi che abbiamo la possibilità di vivere dignitosamente».

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