20 Aprile 2013
Le mie pecore ascoltano la mia voce

Commento al Vangelo della IV Domenica di Pasqua – Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni, a cura di Carmela Pietrarossa.
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono” (Gv 10,27-30).
Gesù in questa giornata che la Chiesa dedica alla preghiera di intercessione e di lode per le vocazioni, ci propone l’identikit dell’apostolo: colui, cioè, che ascolta la sua voce e, quindi, segue il Maestro.
Gesù conosce profondamente le sue pecore, questa conoscenza rimanda alla familiarità e all’amore per la persona conosciuta, a cui il Pastore si rivela nella Parola, facendosi, altresì, suo cibo nell’Eucaristia.
Le sue pecore ascoltano la sua voce perché si scoprono sinceramente amate; sanno che la sua parola è per la vita, non per la morte, per la pace, non per la discordia, per l’armonia, non per il disordine, e per questo si fidano e lo seguono.
Ascolto e sequela sono, pertanto, due aspetti imprescindibili della vita del chiamato: la meditazione della Parola, accolta nel proprio cuore e fatta con onestà intellettuale e libertà di coscienza, non può che sfociare nella sequela, nell’obbedienza, cioè, a quanto quella Parola suscita nei chiamati attraverso lo Spirito.
Di quale obbedienza si tratta? Al fine di accostarci il più possibile al significato autentico del termine chiediamo aiuto all’etimologia della parola: obbedire dal latino “ob audire”, cioè, ascoltare davanti, stando in piedi (ob oculos significa, infatti, davanti agli occhi).
L’obbedienza che viene richiesta dal brano evangelico non è, infatti, una sequela che prescinde dalla nostra volontà, libertà e consapevolezza, ma al contrario le presuppone qualificandole; è un’obbedienza voluta, libera e consapevole. Obbedire “stando di fronte”, come evidenziava don Tonino Bello, è dire di sì al Signore nella nostra vita con tutta la libertà che il Signore ci ha donato e di cui non ci priva mai: “Ascoltare stando di fronte. Quando ho scoperto questa origine del vocabolo, anch’ io mi sono progressivamente liberato dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della mia volontà, e ho capito che essa non ha alcuna rassomiglianza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento dei rinunciatari” (Don Tonino Bello, in Maria donna dei nostri giorni).
L’obbedienza a Dio non intristisce, non diminuisce la nostra passione per la vita che è un dono grande che va sempre vissuto intensamente ed in pienezza; essa ci consente di muoverci sulla linea di Dio, rispondendo generosamente al suo disegno di amore per ciascuno di noi. Il Signore ci restituisce continuamente dignità, mette ordine nelle nostre esistenze e fa sorgere il sorriso sui nostri volti.
«Chi obbedisce non annulla la sua libertà, ma la esalta. Non mortifica i suoi talenti, ma li traffica nella logica della domanda e dell’offerta. Non si avvilisce all’umiliante ruolo dell’automa, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell’ascolto e del dialogo. C’è una splendida frase che fino a qualche tempo fa si pensava fosse un ritrovato degli anni della contestazione: “obbedire in piedi”. Sembra una frase sospetta, da prendere, comunque, con le molle. Invece è la scoperta dell’autentica natura dell’ obbedienza, la cui dinamica suppone uno che parli e l’altro che risponda. Uno che faccia la proposta con rispetto, e l’altro che vi aderisca con amore. Uno che additi un progetto senza ombra di violenza, e l’altro che con gioia ne interiorizzi l’indicazione. In effetti, si può obbedire solo stando in piedi. In ginocchio si soggiace, non si obbedisce. Si soccombe, non si ama. Ci si rassegna, non si collabora» (Don Tonino Bello, ibid).
Tale è l’obbedienza che viene richiesta a noi e a tutti i chiamati; doni il Signore alla sua Chiesa pastori “obbedienti”, con “l’odore delle pecore” (Papa Francesco), che innamorati di Dio traducano la vita in amore per il prossimo, di cui condividono la ciclicità delle stagioni e degli eventi.
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