7 Agosto 2013
Croce Provenzale, un tesoro di montagna

Capita che tu veda da qualche parte e per caso la figura imponente e affilata della Croce Provenzale. Capita poi che te ne innamori e che quel monolite diventi una sorta di ossessione alpinistica. Capita, infine, che un amico – nello specifico Lodovico Marchisio – ti convinca che “è solo una passeggiata che possono fare tutti”. Così ti ritrovi, un martedì di agosto, alle sei di mattina, a iniziare un’avventura che decolla dopo cento chilometri di zigo zago nella Granda e su, su in Val Maira fino alla borgata Chiappera.
Quando quel monolite ti appare, dopo l’ennesima curva ribaltastomaco, ti domandi se sia meno folle tentare davvero di scalarlo o fare dietro front e affrontare di nuovo l’interminabile zigo zago d’asfalto.
“Visto che siamo qui…” E si parte dopo un caffè nell’unico bar della borgata dove Lodovico lascia anche un biglietto da visita “nel caso non ci vedeste tornare…” Proprio l’incoraggiamento che ci voleva! Intanto l’occhio non molla la guglia. E ti chiedi come sia possibile che un gigante del genere sia pressoché sconosciuto ai più, te compreso, che fino all’altro ieri non ne sospettavi minimamente l’esistenza. Alchimie italiche concentrate nell’estrema abilità a nascondere i propri tesori.
Si parte verso la grande roccia che attende paziente. Saremo in tanti a tentare l’impresa? No. Solo noi. Qualche escursionista si incammina con passo flemmatico sul sentiero che conduce al Colle Greguri.
Ad avvicinarci al monolite solo noi. Un ultimo ripensamento e poi si inizia a salire. Dopo pochi metri non puoi non domandarti: “Ma come faremo a scendere?”. Ma l’ebbrezza dell’ascesa ti fa dimenticare tutto. E, appiglio dopo appiglio, vai su mentre il panorama di quella valle incontaminata si distende maestoso, quasi solo per te e per un aquila che volteggia lontano su una cima conica. Lodovico, alla faccia dei suoi 66 anni, procede con sicurezza e agilità. Stargli dietro è un’impresa.
Si chiacchiera per dare voce a quel maestoso silenzio senza vento. Per lo più di imprese alpinistiche, di scalatori provetti e di altri “banfoni”. E si sale. Di tanto in tanto una sosta per un girare video, per scattare una foto, per guardare laggiù, rannicchiata tra i prati, la borgata di Chiappera sempre più piccola e lontana.
Curiosa è l’origine del nome del monolite. Nulla a che vedere con la Provenza, ovviamente. Il toponimo, assegnato verso metà ottocento, deriva dal primo salitore, don Agostino Provenzale, parroco della frazione Lausetto di Acceglio. Secondo la tradizione, il parroco avrebbe partecipato alla battaglia di Novara del 1849, e si sarebbe salvato rifugiandosi nel ventre del suo cavallo, abbattuto dal nemico. Rientrato alla sua parrocchia, decide di costruire una croce sulla cima della montagna come ex voto, e realizza l’impresa nel 1850 insieme ad alcuni dei suoi parrocchiani. Di qui il nome di Croce Provenzale. La croce vera e propria, però, si vede svettare solo all’ultimo minuto, quando ormai non mancano che pochi metri alla cima. Poco prima, però, c’è spazio per una colossale sorpresa. Appena dietro ad un roccione ecco spuntare il parallelepipedo di Torre Castello. Da restare senza fiato. Finché Lodovico ti racconta, come se fosse la cosa più semplice del mondo, che ha scalato quel mostro di roccia, passando per la punta Figari che sta lì minacciosa come il dorso di uno stegosauro.
Gli ultimi passi ti portano a godere a 360° di quella valle dell’Eden. La croce e un targa commemorativa sono un invito alla preghiera. Lodovico ed io leggiamo ad alta voce la preghiera della guida alpina. Il silenzio che segue fa il resto.
Per non sfidare sfacciatamente le previsioni meteo che minacciano un temporale nel pomeriggio ci rimettiamo in marcia. Imbragatura e corda per sicurezza. Da subito non servono e procediamo spediti. La discesa, metro dopo metro, si rivela più impegnativa e faticosa della salita.
Se guardo in basso mi vengono i brividi, se guardo i movimenti sicuri e decisi di Lodovico mi dico: “sono in ottime mani”.
L’ultima ora di discesa è interminabile. Fa caldo, la stanchezza è tanta (siamo in marcia da più di sette ore!), siamo rimasti senza acqua.
Si scende.
In verticale.
Io – daltonico doc – vedo sentieri ovunque e da nessuna parte.
Lodovico non ha dubbi, né destra né sinistra: giù!
I segni li vede solo lui.
Nella testa iniziano a rimbalzare dubbi (“ma ci arriveremo mai laggiù?”) e a cementarsi promesse (“mai e poi mai rifarò un cosa del genere”).
Tocchiamo terra, o meglio il sentiero morbido e erboso. E quasi lo baciamo.
Al bar di Chiappera ci stanno aspettando. Ma non quanto noi aspettavamo il bar!
Ci concediamo una buona mezz’ora di reidratazione al chinotto. Torniamo in vita. O almeno così ci pare. Ci aspettano ancora i 100 km zizzaganti. Una prova da non sottovalutare.
Capita che tu veda da qualche parte e per caso la figura imponente e affilata della Croce Provenzale. Capita poi che te ne innamori e che quel monolite diventi una sorta di ossessione alpinistica. Capita che su quel monolite ti ci arrampichi per davvero e capita che, mentre discendi, giuri a te stesso e al mondo, che non rifarai mai più una pazzia del genere. Capita, però, che non sono ancora passate 24 ore e già ti dici: “però, potrei anche rifarla!”
Patrizio Righero
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