26 Luglio 2022
L’intervista. Marina Casini, presidente MPV, ha raccolto l’eredità spirituale e morale del padre Carlo
Dal 2018 Marina Casini è presidente del Movimento per la Vita, raccogliendo il testimone di suo padre Carlo scomparso due anni fa.
Che cosa è oggi il Movimento? E in che misura è presente sul territorio italiano?
Un grande Movimento. Grande non solo per struttura e articolazioni, ma anche per attività e iniziative, per la sua storia, la sua anima, la sua missione a servizio della società civile ed ecclesiale. Non ho esitazioni a definirlo un Movimento glorioso. Basta leggere il libro “40 anni per il futuro” (Cantagalli, 2018). Sin dagli inizi, di fronte alla portata dei problemi emergenti, il Movimento si è posto come realtà in uscita, per risvegliare la sensibilità di molti sul valore della vita umana sin dal concepimento. L’immagine appropriata è quella del lievito che fermenta e muove la massa, o del motorino di avviamento. Con il tempo esigenze organizzative e di coordinamento hanno portato a strutturare il Movimento come federazione dei centri di aiuto alla vita, case di accoglienza e movimenti locali, cui vanno aggiunti i servizi Progetto Gemma e Sos vita. Inoltre, negli ultimi tempi, abbiamo dovuto adeguarci alla riforma del terzo settore, ma la forza aggregante nel Movimento resta essenzialmente l’ideale comune e l’adesione ai dieci punti indicati al termine del libro “Storia e prospettive del Movimento per la vita” (San Paolo, 2011). Territorialmente siamo presenti in tutta Italia con le associazioni locali e i servizi che ho ricordato. Due aspetti che possono illuminarne la collocazione del Movimento nel panorama italiano: lo sguardo sull’inizio della vita umana, come punto di partenza per la costruzione della civiltà della verità e dell’amore e la laicità, in quanto l’aborto come ogni offesa alla vita umana è anche una lesione grave della società come tale, nella quale il precetto del non uccidere e il riconoscimento dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani dovrebbero essere la base del bene comune.
Una recente decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade che nel 1973 aveva stabilito il diritto costituzionale all’aborto. D’altro canto il parlamento europeo, pochi giorni dopo, con una risoluzione, ha chiesto di inserire il diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Che portata culturale hanno queste opposte prese di posizione?
La prima posizione ha avviato una riflessione importante a livello mondiale che non può non tenere conto del fatto che la gravidanza riguarda anche il figlio che vive e cresce nel grembo della mamma. È un primo passo verso un livello più alto di civiltà. La sentenza americana, però, non è contro l’aborto, tanto è vero che lascia agli Stati il potere di regolamentarlo, ma negando il diritto di abortire, ha detto sostanzialmente che non esiste il potere di “far fuori” un altro. Questa positiva spinta culturale e giuridica deve fare i conti con il fatto che la gravidanza è una situazione specialissima, unica e irripetibile: un essere umano che vive e cresce dentro un altro essere umano. Per questo per proteggere la vita del non nato, possiamo pensare a strumenti diversi dalla sanzione penale, a nuove modalità di tutela che con chiarezza si pongano dalla parte della vita suscitando la collaborazione della madre e del contesto in cui essa si trova. Viceversa, la posizione del Parlamento Europeo, pretendendo di inserire il diritto di aborto nella Carta dei diritti dell’UE, si rifiuta categoricamente di lasciarsi anche solo interrogare dalla domanda fondamentale: il concepito è qualcosa o qualcuno? È qui che la cultura dello scarto celebra il suo trionfo perché nei confronti del non ancora nato lo scarto è totale: deve essere impedito persino lo sguardo su di lui, deve essere distrutto mentalmente prima che fisicamente. Un atteggiamento culturale chiuso, stantio, ormai datato, che non tiene conto delle più moderne acquisizioni scientifiche e del principio di uguaglianza. Di conseguenza non ci si interroga neanche sulle modalità di tutela e si fa coincidere rigidamente la depenalizzazione con la trasformazione del delitto in diritto. Il diritto di aborto è l’aborto del diritto. La scommessa, invece, è che il valore della vita nascente non sia un muro d’incomprensione, ma un ponte per trovarsi insieme, e insieme costruire un futuro migliore per tutti. La vita nascente è divenuta il crocevia della storia per quanto riguarda la dignità umana che oggi chiede di essere contemplata nel “più povero dei poveri”. Occorre un’operazione culturale nuova che collochi sullo stesso piano le istanze di liberazione femminile con la difesa del diritto alla vita dei figli concepiti, invocando il principio di non discriminazione per le une e per gli altri. In questo le donne possono svolgere un ruolo fondamentale.
Perché in Italia è ancora tabù mettere in discussione l’aborto e, in particolare, la legge 194?
È un tema delicato che smuove tante cose ed è ritenuto a torto scomodo e divisivo. C’è la falsa idea che si tratti di una questione esclusivamente morale, religiosa, personale, come se il diritto di nascere ed una reale tutela della maternità durante la gravidanza non avessero a che fare con il bene comune. L’abortismo spinto propaganda l’autodeterminazione al punto non solo di cancellare anche mentalmente il figlio, ma anche da andare contro il diritto di obiezione di coscienza; si ripete lo slogan della conquista civile; si afferma che il divieto di aborto farebbe scattare le manette per chi abortisce, confondendo il fine, tutelare la vita, e i mezzi per tutelarla; c’è anche una sorta di pavidità rispetto al pensiero unico.
Alla radice di tutto c’è il “rifiuto dello sguardo” sul concepito i cui alleati sono la censura, la menzogna, l’annacquamento. La chiave, invece, è tutta qui: riconoscere il concepito come uno di noi. Quindi la nostra operazione deve essere quella di portare lo sguardo della società a tutti i livelli sul bambino non nato, utilizzando argomenti di ragione, mostrando la bellezza della vita umana e la forza dell’accoglienza. Non va poi dimenticato che le vittime dell’aborto sono due: il figlio e la madre. Ecco perché, quando si parla di aborto, è fondamentale mantenere sempre un atteggiamento di accoglienza anche verso le madri che hanno abortito ed evitare modalità comunicative e immagini che possono gettare sale sulle ferite. Quanto alla 194 le difficoltà per eliminarla sono enormi perché gli attuali assetti parlamentari ne rendono politicamente impossibile la rimozione. In un sistema in cui l’aborto è legale e la legge non è immediatamente modificabile, è necessario attuare la difesa del diritto a nascere attraverso la cultura, l’educazione, il consiglio e la condivisione concreta delle difficoltà che orientano la donna verso l’aborto. In questa prospettiva è auspicabile una profonda riforma dei consultori familiari in modo da renderli efficace strumento di tutela del diritto alla vita dei concepiti: rinunciare a punire non significa rinunciare a difendere i bambini non nati ponendosi accanto alle loro mamme. Se la misericordia deve inondare le donne che hanno fatto ricorso all’aborto ̶ vittime anche loro ̶ ferma deve essere la severità nei confronti di quella cultura radicale che continua a rifiutare di volgere lo sguardo anche verso il concepito. Il massimo strumento di prevenzione dell’aborto è la consapevolezza che la gravidanza riguarda anche un essere umano che vive e cresce nel grembo della donna. Il Movimento per la vita mette a disposizione della società l’esperienza dei Centri di aiuto alla vita che hanno aiutato a nascere moltissimi bambini non contro, ma insieme alle madri.
Qual è l’eredità che le ha lasciato suo padre in termini di testimonianza e impegno?
Difficile rispondere in poche battute. La sua eredità è enorme e penso che molto sia ancora da scoprire e approfondire. Aveva una capacità di lavoro e di abnegazione straordinaria e un pensiero lucido, profondo e rigoroso. La sua opera è stata grandissima e intensissima sul piano culturale, sociale, legislativo, politico, assistenziale, civile ed ecclesiale. Non si tratta solo dei contenuti, ma anche dello stile e del modo di impegnarsi. Ha dato anche una profonda impronta spirituale all’impegno per la vita. Se ne ha un’idea leggendo il suo “La dimensione contemplativa nella difesa della vita umana”, le cui ultime pagine in particolare, risalenti al tempo della malattia, sono piene di luce. La sua era un’umanità ricchissima. Era uomo di dialogo e di pace. Benevolente verso tutti. Come è stato scritto, la sua eredità più preziosa sono le centinaia di migliaia di bambini aiutati a venire al mondo semplicemente mettendosi in ascolto di madri tentate per povertà, smarrimento, solitudine o disperazione di imboccare la drammatica scelta dell’aborto. Nelle iniziative nate dalla sua intuizione un vasto popolo ha trovato una via di dedizione agli altri e di impegno per la società. Da due anni in qua c’è stata una fioritura di testimonianze sulla sua persona, ci sono stati diversi convegni e un paio sono in programma entro l’anno. Sono stati pubblicati libri, e altri sono in cantiere. Mi limito a ricordare il volume in uscita nel prossimo autunno, curato da Francesco Ognibene caporedattore di Avvenire, per i tipi della Cantagalli. Si intitola “Di un Amore Infinito possiamo fidarci. Carlo Casini testimone profeta padre”. Il testo raccoglie 115 testimonianze di persone di ogni provenienza sociale, di diverse età e nazionalità accomunate dalla fortuna, dalla gioia, dalla grazia di aver incontrato, in un modo o nell’altro, Carlo Casini.
In che modo pensa di portare avanti e valorizzare il lavoro di suo padre?
Soprattutto adoprandomi per farne conoscere a fondo il pensiero e le opere. Da moltissimo tempo, insieme a mia mamma e ai miei fratelli, raccolgo i suoi scritti editi e inediti e sto curando la bibliografia. La sua attività è stata vulcanica e penso che sia quasi impossibile allestire un archivio completo, ma andiamo avanti. Concludo con le parole che lui non solo ha scritto, ma ha anche messo concretamente in pratica: «L’uomo è chiamato non soltanto a vivere l’amore come scopo della sua personale esistenza, ma anche a costruire nel tempo la civiltà dell’amore, cioè ad edificare le strutture portanti, solide e definitive, della fraternità e della pace».
Patrizio Righero
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