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Personaggi  

Incontro con Leji Matsumoto, il "padre" di Capitan Harlock

Incontro con Leji Matsumoto, il

«Quando tornavo da scuola, lungo la strada urlavo ad alta voce una parola senza senso “Harrok, Harrok”. Se c’era gente, però, la pronunciavo sottovoce. Di qui è nata l’idea per il nome di Capitan Harlock!»

Leji Matsumoto, indossato il berretto nero con il teschio dei pirati, diventa lui stesso un personaggio fantastico. «Il teschio bianco con le ossa incrociate è il simbolo della morte, ma il mio – ci tiene a precisare – è rosso, perché sono ancora vivo». Vivo e vivace, i suoi 81 anni se li porta bene e non si risparmia alle domande dei giornalisti che lo scorso 14 ottobre lo hanno incontrato nel municipio di Torino. Ad invitarlo in città, per una fitta serie di eventi, l’Associazione cultuale che porta il suo nome. Anche se il suo vero nome è Akira. «Leji è quello d’arte. L’ho scelto perché discendo da una famiglia di samurai e Leji significa “samurai senza fine”».

Nei suoi manga c’è molto della sua vicenda biografica. Così spiega la sua passione per la locomotiva diventata poi l’icona di Galaxy Express 999: «A 18 anni feci un biglietto di sola andata per Tokyo dove iniziai la mia carriera da disegnatore. Il treno era trainato da una vecchia locomotiva. Quel viaggio cambiò per sempre la mia vita». Il suo sogno era diventare ingegnere aerospaziale, ma non poté realizzarlo. «Terminata la seconda guerra mondiale la mia famiglia era molto povera. Mio padre era un militare, uscito sconfitto dalla guerra. Così mi dedicai al disegno grazie al quale potevo guadagnare. Fu mio fratello minore a diventare ingegnere spaziale e lui mi fornì poi fotografie e suggerimenti tecnici utili per i miei disegni e le mie storie».

Anche la Nuova corazzata Yamato nacque da un contatto diretto. «Grazie alle conoscenze di mio padre mi furono mostrati i disegni originali del progetto della Corazzata Yamato, una vera nave da guerra. Di lì presi lo spunto per l’astronave». Ed è sempre grazie al padre che rimase affascinato dall’occidente. «Lui era pilota di aereo e prima dell’inizio della II guerra mondiale venne in Europa per apprendere le tecniche di volo. Portò a casa delle fotografie che mi ispirarono molto. Il mio ideale di donna, quella che ho raffigurato nei miei lavori, è una donna nord europea». E poi le parole che solo un giapponese potrebbe pensare e dire: «Oggi guardo in faccia ciascuno di voi e penso che per anni ho usato i vostri volti e il vostro abbigliamento senza avermi mai chiesto il permesso!»

Nessun argomento lo mette a disagio, neppure la bomba di Hiroshima. «Quell’aereo – ricorda il maestro Matsumoto – è certamente passato sopra casa mia. Non serbo rancore e voglio vedere qualcosa di buono anche in quella catastrofe. Spero che serva da monito per non ripetere mai più un errore del genere».

Circa la dimensione spirituale dei suoi personaggi racconta di aver elaborato una sintesi personale attingendo anche alle filosofie occidentali. «Discendo dai samurai, quindi per me il bushido  è un punto di riferimento, ma ho imparato e ho molta stima dello spirito cavalleresco. Nelle mie opere cerco di rispettare tutte le tradizioni religiose, senza offenderne alcuna. La filosofia e la cultura europea per me sono preziose e l’ho messo in evidenza soprattutto nella rivisitazione fantascientifica della saga dei Nibelunghi».

Progetti per il futuro? «Ho ripetuto più volte all’agenzia spaziale giapponese che sono disponibile ad andare su Marte, sapendo di non fare ritorno. Sono davvero pronto a partire, anche oggi stesso, per questa nuova e affascinante avventura». Che dire? Buon viaggio, maestro!

P.R.

 

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