8 Marzo 2011
Il vescovo dell’Unità

Monsignor Lorenzo Renaldi, “pastore illuminato” diede un significativo contribuito alla causa del Risorgimento Nel 1847 sottoscrisse una supplica al re a favore dell’emancipazione valdese e israelita
Lorenzo Renaldi nasce a Torino nel 1808. Ordinato prete nel 1832 e laureato in teologia, diventa canonico della Collegiata della SS.ma Trinità nella congregazione dei preti teologi del Corpus Domini in Torino, dove è amico di Giuseppe Benedetto Cottolengo. Le sue tendenze liberali si manifestarono già nel 1847, quando sottoscrisse una supplica al re a favore dell’emancipazione valdese e israelita. Ha scritto Vittorio Morero: «Prima di essere vescovo firmò una petizione a favore dell’emancipazione valdese, che doveva fondarsi non solo sui principi della libertà civile, ma anche su quello della libertà religiosa, che aveva allora fra i cattolici pochi cultori». Quando diversi ecclesiastici, in ossequio a Roma, ritirarono la loro adesione, il Renaldi rimase fermo. Il 17 febbraio del 1848 fu decretata l’emancipazione valdese, il 19 giugno quella israelitica. Nello stesso anno vide la luce, sotto i suoi auspici, “Il Conciliatore Torinese”, giornale aperto a una conciliazione della Chiesa con la “civiltà”, conciliazione nella quale troveranno spazio le novità risorgimentali e l’unità d’Italia. È fuori discussione la fedeltà di Renaldi a Casa Savoja prima ancora della nomina all’episcopato che lo avrebbe impegnato col giuramento; in diverse occasioni liete o tristi (nascite, matrimoni, funerali) egli era, e ancora sarebbe stato, chiamato a predicare a corte. Il vescovo inaugurò uno stile di lealtà verso lo Stato e le autorità civili. Aveva aderito con entusiasmo alla politica di Carlo Alberto e avrebbe guardato sempre con simpatia al figlio Vittorio Emanuele II, senza mettere in discussione le decisioni dei sovrani, anzi appoggiandole e chiedendo ai diocesani di accoglierle con obbedienza. La motivazione di tutto ciò, prima di manifestarsi nell’accoglienza delle disposizioni reali per lealtà verso lo Stato, aveva la sua radice nella convinzione che «l’autorità – anche civile – viene da Dio». Ogni sua lettera al clero o ai diocesani si chiude con l’esortazione alla preghiera «per il Re e la Reale Famiglia». In esse nulla appare di contrario al Risorgimento e all’unità della nazione, anzi, sebbene in maniera non esplicita (doveva trovare sempre il giusto equilibrio tra l’obbedienza al papa e la fedeltà al sovrano), compaiono sfumature favorevoli. Una qualche contrarietà, espressa in frasi, diremmo, diplomatiche (tipo «Iddio illumini il Governo»), il Renaldi la esprime non contro il disegno risorgimentale in sé, ma contro leggi del governo (e non di Casa Savoja) che minano la libertà della Chiesa e l’unità matrimoniale della famiglia. Entrato in diocesi, il vescovo scrisse ai superiori del seminario: «Si educhi il chierico, fin dai primi anni, a fuggire ogni intolleranza, che rende così indulgenti verso se stessi e cotanto severi verso gli altri». Al Concilio Vaticano I, il Renaldi chiederà che la Chiesa rispetti gli ambiti profani con un atteggiamento di non ingerenza e si proclamerà contrario, per convinzione, al dogma dell’infallibilità pontificia. Non gli toccherà di votare nell’occasione della definizione dogmatica, perché aveva lasciato il Concilio, per motivi di salute, prima della sua conclusione; dichiarerà però pubblicamente di accettare le decisioni conciliari e nel 1872, prevenuti gli atti del Concilio, ne trasmetterà ai parroci le due costituzioni dogmatiche perché facciano parte ai fedeli delle verità promulgate. Sulla questione del potere temporale del pontefice e di Roma capitale, sempre proponeva la strada della conciliazione. Monsignor Renaldi morirà nel 1873. All’indomani della sua morte non mancheranno presuli piemontesi che prenderanno da lui le distanze e daranno giudizi, poco benevoli e alquanto parziali, del suo episcopato pinerolese, del suo vicario generale e dei preti che più gli erano vicini. Considerando dette critiche, colpiscono ancor di più le parole di Camillo Cavour, che non possono non suonare elogiative, sebbene lo statista piemontese non faccia nomi, anche all’indirizzo di monsignor Renaldi. Il “tessitore dell’unità d’Italia”, polemico nei riguardi dell’arcivescovo di Torino, Luigi Fransoni, collocato su posizioni d’intransigenza e chiusura, pochi mesi prima della proclamazione dell’unità dirà, in un discorso al parlamento subalpino: «Io credo di non errare affermando che se il clero ha forse meno privilegi, se il numero dei frati è di gran lunga scemato, la vera religione ha molto più impero sugli animi dei cittadini che al tempo in cui blandire una certa frazione del clero, o l’ipocrita frequentare delle chiesa facevano salire agli impieghi e agli onori. Quelli fra voi che non appartengono a queste contrade possono, uscendo da questo recinto, riconoscere la verità di quanto affermo. Ciò vi sarà pure confermato da tutti i venerabili pastori di questa capitale, quantunque a questa città non sia toccata la sorte di avere a capo della sua diocesi un pastore illuminato come ne esistono in città poco da noi distanti, ed i quali seppero conciliare i dettami della libertà coi canoni della religione». Su questa stessa linea si mossero i più stretti collaboratori di Renaldi; e penso si possa dire che hanno contribuito alla causa del Risorgimento e dell’unità d’Italia.
Giorgio Grietti
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