7 Luglio 2014
Giuseppe Donati, il democratico impenitente
7 luglio 2014
Nella ormai lunga storia del cattolicesimo sociale non si può dimenticare una figura di primo piano quale fu quella di Giuseppe Donati, personalità studiata a lungo da vari storici, soprattutto per quanto riguarda la sua attività politico-culturale e l’impegno religioso.
La sua formazione giovanile inizia a Faenza dove nasce, si sviluppa a Firenze dove si laurea nel 1916 in lettere e filosofia. Scrive su la “Voce” di Prezzolini, su “L’Unità” di Salvemini e sul “Risorgimento”, rivista di storia e politica. I temi a lui più cari sono il rapporto tra democrazia e cristianesimo.
«È l’ispirazione cristiana in politica che ha infuso nella Chiesa una vitalità nuova» scriverà nel 1919 sostenendo che «il movimento democratico cristiano ha contribuito più di tutti alla diffusione di una nuova cultura biblica, teologica e liturgica». Sosterrà nei suoi scritti come «troppi cattolici sono ancora vittime di un’idea che il cristianesimo sia una dottrina d’ordine analoga all’ordine borghese e che quindi la bontà cristiana sia accomodante, conciliativa e pacifica, mentre il cristianesimo è una dottrina intransigente, tormentosa e militante» (da l’Azione, 25 marzo 1915). Attribuirà grande responsabilità di questa concezione deresponsabilizzante alla Curia Romana soprattutto quando nelle elezioni del 1913 essa inviterà a votare i clerico-moderati.
Le sue sono idee che don Romolo Murri sviluppava attraverso la “Lega democratica” alla quale inizialmente Donati si sentì attratto, ma che poi abbandonerà.
Scriverà ancora: «Il clericalismo è una faccia del giolittismo che con il suo freddo pragmatismo ha ridotto il Parlamento alla più piatta uniformità ed ha attuato con il patto Gentiloni, un’intesa che ha impedito ai cattolici democratici di uscire allo scoperto e in autonomia».
Nel 1919 aderì al Partito Popolare di don Sturzo sul quale per anni aveva espresso perplessità. Riteneva che fossero ancora presenti nel Partito troppe “cariatidi del clerico-moderatismo”. Ma è realista: abbandonando Murri, vede in Sturzo aprirsi una prospettiva politica nuova.
Nella disputa Sturzo – padre Agostino Gemelli, egli sostiene con il fondatore del partito l’idea della aconfessionalità di questo, pur essendo un partito d’ispirazione cristiana, ma che vuole coinvolgere solo quei cattolici e laici che ne condividono il programma.
Nel 1922 al Congresso dei Popolari a Venezia imposta il problema della collaborazione con i socialisti, soprattutto dopo l’offensiva fascista ormai presente in tutta Italia. A chi preoccupato di questa possibile collaborazione richiama quella avvenuta, per troppi anni, con le forze liberali conservatrici e massoniche, senza provarne disagio.
A differenza del liberal-cattolicesimo che tendeva a considerare la Chiesa società compiuta e giuridicamente perfetta, egli la vede piuttosto come una realtà soprattutto soprannaturale e dinamica in continuo divenire.
Donati combatte i clerico-moderati che accettano il fascismo «vero paganesimo ammantato di formalismi religiosi».
Legge e studia Sant’Agostino, Newman, Rosmini, Pascal, Gratry con richiami storici a Manzoni e Rosmini e ai Padri della Chiesa.
Con Lacordaire riafferma il primato della coscienza e la sua posizioni nella Chiesa è “né schiavi, né ribelli”.
Quando nel 1923 viene fondato il quotidiano del Partito, “Il Popolo” Donati ne diviene il direttore.
Il giornale sarà una delle più spregiudicate macchine di battaglia, un “unicum” irripetibile per lo spirito nuovo che lo anima.
Donati viene considerato l’inventore del giornalismo d’inchiesta.
Il versante sociale era consolidato tra i cattolici, mentre era più sguarnito quello culturale – religioso inceppato dal modernismo prima e poi tentato dal clerico-fascismo.
A lui va attribuita la più lucida critica che in campo cattolico venne esposta contro il fascismo tanto che l’inchiesta da lui condotta dopo il delitto Matteotti che chiama in causa in regime, è minacciato di morte. Abbandona l’Italia e ripara in Francia dove si unisce ai numerosi fuoriusciti. Vive povero e dedito a lavori di ripiego. Benché malato e in ansia continua per la sorte dei famigliari in patria, continua a scrivere fino all’ultimo per la causa italiana e in difesa dei cattolici democratici.
La sua vita di militante, mai rassegnato, fu una esistenza scomoda per gli avversari ma anche per molti amici che si adagiarono alla situazione, stanchi di lottare.
Privato della cittadinanza italiana, che gli verrà restituita nel 1931, muore a Parigi il 16 agosto di quello stesso anno.
La sua lealtà cristiana, la sua fondamentale coerenza di fede restò saldamento ancorata alla sua terra d’origine, anche se le vicissitudini della vita lo portarono lontano.
Vale per lui quanto De Gasperi scrisse di sé: «Sono un uomo che ha avuto il dono della fede, non ho mai rinunciato alle mie idee ed ho l’ambizione di essere onesto».
Aurelio Bernardi
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