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Personaggi  

Giornata del Ricordo. La testimonianza di una esule istriana

Giornata del Ricordo. La testimonianza di una esule istriana

Oggi, mercoledì 10 febbraio, si celebra il “Giorno del Ricordo”. La ricorrenza fu istituita con la legge 92 del 30 marzo 2004, in memoria della tragedia degli italiani vittime delle foibe e dell’esodo istriano, fiumano e dalmata nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.

I fatti, ancora poco conosciuti, si volsero dopo l’armistizio del 8 settembre del ’43, quando l’Italia decise di schierarsi dalla parte degli anglo-americani, abbandonando l’alleanza con i tedeschi. In questo scenario, iniziarono ad operare i partigiani “Titini”, seguaci del maresciallo serbo Josip Tito Brotz. Essi componevano l’esercito di liberazione jugoslava che si proponeva di liberare la zona della Dalmazia, dell’Istria e della Venezia-Giulia dagli Italiani, considerati, in maniera razzista e ideologica, come fascisti e usurpatori. I “Titini”, infatti, si proponevano di attuare una vera e propria pulizia etnica al fine di restituire quei territori alle popolazioni slovene e croate, le quali, a pare loro, erano state private della loro terra, attraverso abusi e soprusi operati dagli italiani, che per questa ragione dovevano essere puniti. Fu così che tra il ’43 e il ’45 migliaia di nostri connazionali furono prelevati dalle loro case e messi in fila indiana, legati col fil di ferro e disposti davanti alle Foibe, cavità carsiche. Lì i partigiani con un colpo di pistola colpivano il primo disperato, in modo tale che quest’ultimo, cadendo, facesse precipitare nelle foibe il resto dei compagni, che spesso rimanevano ancora vivi, agonizzando per giorni. 350.000 italiani, invece, sono riusciti a mettersi in salvo, scappando da territori riconosciuti internazionalmente come Italia (Ndr. Dalmazia, Istria e Venezia-Giulia) verso altre zone della penisola.

Questa è la storia della mia bisnonna Antonia Montegan, del mio prozio Antonio Radillo, mia nonna Maria Radilloe della mia prozia Clelia Radillo, unica testimone rimasta viva di questi eventi, che ho intervistato nella sua casa di Pinerolo.

Dove vivevate?

Sono nata e vissuta in Istria, a Fiorini, frazione del comune di Verteneglio, assieme a mia mamma, mia sorella e mio fratello più grandi di me e nostro zio Marco, che viveva in casa nostra, fratello di mio papà, che non ho mai conosciuto perché morto molto giovane. Lì possedevamo una tenuta che si estendeva fino al mare e nella quale lavorava una famiglia di coloni.»

Come hai trascorso la tua infanzia?

Ho fatto le elementari in paese. Poi sono andata in collegio a Parenzo dove ho fatto le medie e i primi 3 anni di magistrali, perché con la guerra hanno chiuso l’istituto e perciò per diplomarmi sono andata a Trieste. Mia sorella, fortunatamente, è riuscita a diplomarsi anche lei come maestra a Parenzo, mentre mio fratello si è laureato in agraria, nella speranza, mai realizzata, di dirigere la nostra tenuta.

Qual è stato il vostro rapporto con gli jugoslavi?

I Titini, ma anche i tedeschi dopo, venivano a mangiare da noi e non potevamo rifiutarci. A un certo punto i partigiani hanno fatto istallare in casa nostra il telefono, che serviva loro per fare chiamate. Io ero “contenta” perché avevamo un mezzo per comunicare con l’esterno, anche se controllavano costantemente cosa dicevamo. Perciò usavamo il telefono solo per chiamare il dottore a Trieste. Credo che, inizialmente, i Titini avessero un certo rispetto verso di noi perché la famiglia di mio papà era di origine ungherese. Col Fascismo, il nostro cognome è stato italianizzato da Radislovich in Radillo, per cui secondo loro, noi non eravamo italiani al 100%.

Qualche tuo conoscente è stato infoibato?

In paese ci conoscevamo tutti: la gente spariva, ma non sapevamo dove finisse. Solo in seguito abbiamo saputo delle foibe. La notte i Titini andavano nelle case a prendere le persone. Alcuni di loro, una sera, si sono recati a casa del nostro colono: cercavano i suoi tre figli perché pensavano fossero anti-comunisti. I ragazzi si erano nascosti in un vano esistente tra la nostra casa e la loro, raggiungibile attraverso una porta nascosta, dove avevano già messo delle provviste. Il padre che negava di sapere dove fossero i figli è stato picchiato dai partigiani. Poi sono venuti anche da noi, ma mia madre ha negato la loro presenza.

Com’è stato l’ultimo anno di scuola a Trieste?

Nella mia classe eravamo solo 9 ragazze un po’ incoscienti. In quell’anno c’è stata l’occupazione jugoslava della città (Ndr. “I 40 giorni di Trieste” dal 1° maggio al 12 giugno del 1945) e ci hanno imposto di studiare il croato, ma ci siamo rifiutate cercando di raggiungere giusto il 6. A scuola sui muri in certi momenti avevamo la foto del Re e in altri quella di Tito, che toglievamo sempre. Mi ricordo che il giorno del suo compleanno una mia compagna ha portato una torta e quando l’abbiamo tagliata dentro era tricolore perché ci sentivamo Italiane.

Quando hai lasciato per sempre l’Istria?

Dopo aver preso il diploma a Trieste sono tornata in Istria. Lì il sindaco del paese mi ha chiesto di sostituire la maestra per gli ultimi mesi dell’anno scolastico. È stata la mia prima esperienza lavorativa nel corso della quale un ragazzo comunista impiegato in comune veniva sovente a farmi visita. Si presentava nel corso delle lezioni; tempo dopo mi ha detto che era stato mandato a sentire se quello che insegnavo fosse contrario al regime di Tito. Col tempo, probabilmente, lui ha sviluppato una simpatia nei miei confronti e mi ha invitato ripetutamente a lasciare l’Istria. L’ultima volta è stato chiaro: ero stata inserita nella lista nera. Con mia mamma ho deciso di tentare una partenza approfittando del fatto che mio fratello si doveva sposare a Trieste (lei invece è rimasta lì per continuare a curare le proprietà e accordarsi con i coloni per gestire la successiva annata agraria, nella speranza, un giorno, di poter tornare). Arrivata a un posto di blocco dei Titini non mi hanno lasciata passare. Pochi giorni dopo mi hanno lasciata passare.

Cosa è successo quando sei arrivata in Italia?

Arrivata a Trieste non avevo un posto dove andare a vivere. Grazie ad alcuni parenti, all’interessamento dei figli dei coloni e a mia sorella ogni sera avevo la possibilità di andare a dormire in un’abitazione. D’estate ho partecipato a vari campi scout anche perché mi garantivano per un lungo periodo vitto e alloggio.

Sei è ritornata in Istria a vedere rivedere il tuo paese e la tua casa?

Sì, sono tornata con mio marito per rivedere la mia casa. Quando sono arrivata abbiamo deciso di fare una sosta e prenderci un gelato. Entrati nella gelateria il gelataio, slavo, appena ha capito che noi eravamo italiani ha preferito continuare a parlare con un bambino che aveva servito prima ignorandoci completamente. Solo dopo le nostre rimostranze ha deciso di servirci».

 Lorenzo Battiglia

 

 

Clelia e Maria Radillo

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