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Personaggi  

Gaspare, Melchiorre e Baldassarre

Gaspare, Melchiorre e Baldassarre

22 dicembre 2014

Michel Tournier, lettore, per sua e nostra fortuna, dei testi classici, a suo tempo amico ed estimatore di Ernst Jünger, il “testimone del secolo”, affronta, in un romanzo del 1980 (in Italia per Garzanti quattro anni dopo) lo scenario della Natività, per narrarci le biografie dei misteriosi re orientali che vanno a Betlemme seguendo la scia luminosa della cometa.
Per Gaspare, il primo di loro, la partenza, e dunque il viaggio, è una cura di giovinezza e di forza. Perché, come dice il suo poeta preferito, l’acqua che stagna immobile e senza vita si fa salmastra e torbida, ma l’acqua viva e canora resta limpida e pura.
A metà del viaggio, nel giorno della Fecondazione delle palme da dattero, canti e danze riuniscono i giovani, e sono anche l’occasione tradizionale in cui si concludono i fidanzamenti, mentre i matrimoni si celebrano sei mesi dopo, durante le feste del raccolto. Il piatto rituale della Fecondazione è un arrosto di antilope marinata con tartufi, una pietanza molto piccante in cui entrano il pimento, la cannella, il comino, il chiodo di garofano, lo zenzero, la noce moscata e semi di cardamomo.
Il secondo re mago, Baldassare, re di Meroa, diretto, a sua volta, verso colui che sarà il Salvatore del mondo, così dice a se stesso, prima dell’incontro con gli altri re: «Il lungo cammino devo averlo percorso senza accorgermene, invecchiando e riflettendo, e mi portava sul ciglio di quel recinto arato della campagna di Ebron dove Javé avrebbe modellato il primo uomo».
Poi, Melchiorre: «Sono re, ma povero. Forse la leggenda farà di me il Mago che va ad adorare il Salvatore offrendogli dell’oro. Sarebbe una sapida e amara ironia benché conforme in certo modo alla verità. Gli altri hanno un seguito, e servitori, cavalcature, tende e argenterie. È giusto. Un re non si sposta senza un degno equipaggiamento. Ma io sono solo con l’eccezione di un vecchio che non mi lascia mai».
Infine, Erode, che non sa niente e tutto teme, e il cui corpo, torturato dagli incubi e dalle malattie, si sforza di ridere ascoltando il racconto dei cortigiani che lo assicurano della sua forza, mentre egli è preda di uno stomaco malandato e di trippe che gli si disfano.
«E con tutto ciò ho fame. Sto morendo di fame! Deve pur essere restato un po’ di ragù, un mezzo avvoltoio, qualche cetriolo al cedro oppure uno di quei tassi unti di strutto, grazie ai quali gli ebrei raggirano la legge di Mosè. Da mangiare, buon Dio!».
D’altra parte, nella capanna della Natività, «l’asino è un poeta, un letterato, un chiacchierone. Il bue, lui, non apre bocca. È un ruminante, un meditativo, un taciturno […]. Sa che la sua massa rassicurante e incrollabile ha il compito di vegliare sul travaglio della Vergine e sulla nascita del Bambino».

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