16 marzo 2015
Appassite le mimose della “Giornata internazionale della donna” si torna alla vita di tutti giorni. Ma molte donne nel mondo non hanno ricevuto nessun fiore, nessun augurio… Sono le donne che non sanno nemmeno dell’esistenza di questa “giornata”.
Silvietta Giletti Benso, docente dell’Università di Torino, da anni è impegnata nel dar voce alle donne del Centro e del Sud America usate come merce di potere e di piacere.
«Abbiamo i dati di Amnesty del 2014 che registrano anche le difficoltà di chi denuncia il fenomeno chiedendo giustizia per i femminicidi -spiega Silvietta-. Dai dati emergono delle cifre che lasciano assolutamente sbalorditi. Pur tendendo conto che i dati sono dei paesi a più alto rischio come l’Honduras (al primo posto nel mondo), in media viene uccisa una donna ogni 17 ore.
E si registrano degli aumenti. Nel Guatemala c’è una crescita altissima e più del 95% dei delitti contro le donne non viene sanzionato. Questo fa emergere la discriminazione radicata a tutti i livelli, già in quello famigliare».
Quale è il ruolo della donna in questi paesi?
Il ruolo delle donne nelle società latinoamericane è determinante. Spesso l’uomo se ne va di casa e la donna – mamma o nonna – resta l’unico riferimento. Ma fin dalla dall’infanzia è considerata un oggetto. Sempre se serve!
Qualche dato?
Nello Stato di Chihuahua in Messico, dove c’è Ciudad Juárez, tra il 2007 e il 2010 i femminicidi sono aumentati del 1000%. Il tasso è 15 volte maggiore di quello mondiale, tanto da definire il femminicidio a Suarez una “pratica sistematica”. Questi sono dati di Amnesty del 2014, molto attendibili.
Fece scalpore il cosiddetto caso del “Campo di cotone”. Che cosa accadde?
Nel 2001 sono stati trovati i resti di 8 donne in un campo di cotone. Solo tre sono state identificate. Di una la mamma aveva conservato una costola che le era stata consegnata dopo la scomparsa della figlia. Le altre sono rimaste sconosciute perché l’esame del DNA doveva essere eseguito in USA al costo di 1000 dollari: cifra inarrivabile per le famiglie.
Queste però, supportate da avvocati, presentarono il caso alla Corte Americana la quale per non fare ingerenza difficilmente si prende carico di casi esteri. Tuttavia, se il paese dove avviene il reato non fa nulla, ci sono i requisiti per procedere.
La particolarità del caso del “campo di cotone” sta nel fatto che le donne ritrovate erano state uccise non nello stesso momento. Questo ha fatto scattare il sospetto dell’esistenza di una struttura molto solida. Come hanno dimostrato vari studi, come quelli di Diana Washington Valdez, Sergio Gonzalez e altri la colpa non fu solo dei narcos ma fu coinvolta la classe dirigente cittadina al completo, con la connivenza della polizia e dei mezzi di informazione.
Nel 2009 si ha una svolta…
Sì. Lo stato del Messico fu stato condannato perché non ha fatto nessun lavoro di prevenzione. Non solo, pur conoscendo la situazione non ha investigato. Per le famiglie la condanna è stata l’unica consolazione. Il documento sul quale io ho lavorato, non a livello giuridico ma antropologico, offre uno spaccato di vita messicana di quegli anni e di oggi.
Emergono tutti gli elementi per catalogare le violenze del “Campo di cotone” non come un il raptus di un maniaco ma come violenze sistematiche vere e proprie. Con la presenza di “casas de securitad” in cui le donne venivano sequestrate, violentate e torturate per più giorni prima di essere uccise.
Quali sono le ripercussioni a livello sociale?
Come per il “Campo di cotone”, anche negli altri casi non c’è la volontà di cercare un colpevole, così si cerca un capro espiatorio. Si individuano uno o più ragazzi, li si tortura fino a che non confessano colpe non commesse ed essi finiscono giustiziati. Quindi il danno non è solo per le vittime donne ma anche per dei giovani che non sono colpevoli. Spesso le famiglie che parlano e che chiedono giustizia vengono minacciate pesantemente anche da funzionari dello Stato. Alcune donne sono state costrette a lasciare il Messico.
Questo fenomeno ha cambiato anche il concetto di famiglia normalmente formate da madre e/o nonna e figli (gli uomini se ne vanno di casa). Si ha così un numero notevole di orfani in condizioni di estrema povertà quindi facili prede per la malavita, i narcos soprattutto. Non è raro che bambini abbiano in mano dei fucili a 10 anni. Sono i cosiddetti “sicaritos”. Le bambine, invece, vengono avviate alla prostituzione e allo spaccio.
Stanno aumentando le indagini su casi simili a quello del Campo di cotone?
Ufficialmente sì, ma i nostri contatti sul posto riferiscono di no. Teniamo presente che il Messico avrebbe dovuto indagare su tutti i funzionari in carica nel periodo del “Campo” ma non lo ha mai fatto.
Adesso stanno sorgendo, sotto gli occhi della polizia, dei centri tipo i nostri centri estetici dove le donne che si recano vengono “studiate” ed eventualmente successivamente rapite. Quindi entrano negli ingranaggi della mala con tutto ciò che comporta, spesso anche la morte.
Dal 2007 si sa sviluppando un altro fenomeno, quello delle “migrantes” che percorrono il più grande e pericoloso corridoio di migrazione del mondo lungo tutto il centro America. Le donne, pur viaggiando a volte con mariti o padri, vengono sequestrate nei punti di frontiera e il loro destino è segnato.
Per evitare ogni traccia di violenza i resti delle donne vengono dati in pasto ai suini: metodo efficace ed economico. Ormai saranno più di 1000 le donne uccise con queste pratiche di distruzione del corpo che come sostiene l’antropologa Rita Segatto non è solo qualcosa di sessuale ma di più profondo.
Che cosa chiedono le donne che vivono in questi contesti?
«Ditelo perché si sappia». I loro stati lo nascondono e danno colpa ai narcos. Quindi non lo considerano come femminicidio. Sulle istituzioni non possono fare affidamento e se parlano sono a rischio della loro vita.
Cristina Menghini