10 Dicembre 2013
Incontro con Domenico Cives, medico e amico di don Tonino Bello
Domenico Cives, medico di famiglia a Molfetta (Ba) è anestesista ma ama curare i pazienti “svegli”. Cresce in una famiglia cattolica ma il catechismo e le preghiere col tempo diventano litanie da ripetere…
Già da studente, il suo rapporto con il dolore lo porta a mettersi in discussione e a interrogarsi. «La sofferenza mi impone la scelta migliore, il bene per la persona che soffre ma anche la ricerca di un bene “altro” che mi possa aiutare a fare il meglio”. Poi l’incontro che cambia la vita.
Il vescovo della sua diocesi è Tonino Bello «Non avevo intenzione di incontrarlo – spiega Cives – ero convinto che la sua fama fosse eccessiva». Ma una sera il parroco organizza una serata per gli intellettuali del quartiere. Tonino Bello ha inebriato «come un buon vino» il pubblico. «La santità – dice il Vescovo – è alla portata di tutti».
E cita una poesia di Trilussa, quella dell’ulivo che un taglialegna vuol far diventare la statua di un santo. «Te ringrazzio tanto – risponde l’ulivo – ma er carico d’olive che ciò addosso nun te pare un miracolo più grosso de tutti quelli che farei da santo?».
Al termine tutti tacciono stupiti di quelle parole. Per non congedare subito il vescovo, il parroco chiama Cives ad intervenire. «Volutamente ero rimasto al fondo della sala e pensavo che nessuno mi avesse visto. Ma quel “bastardo prete(!)” mi chiamò. Allora mi alzai e con mia figlia di 7 anni andai a parlare delle difficoltà dei miei pazienti a pagare i ticket dei farmici. E Tonino volle conoscermi».
Abbiamo incontrato Domenico Cives a Piossasco, a margine di un incontro organizzato da Adriano Andruetto, responsabile del progetto di cooperazione con il Comune di Gorom-Gorom in Burkina.
Quale fu la prima cosa che le disse monsignor Tonino Bello?
Mi disse: «Mi è piaciuta l’immagine di lei, padre, con la figlia per mano: un’icona della difesa delle nuove generazioni». Inoltre, capendo che il mio bagaglio culturale era scientifico e laico, aggiunse: «noi siamo due rette parallele che si incontreranno nell’infinito». Subito risposi: «Vescovo, insegnami a pregare!».
È lei che ha confermato la diagnosi di neoplasia a don Tonino. Come ha reagito?
Ha chinato il capo sgomento come tutti i pazienti cui è diagnosticato un tumore… ma ha accettato dall’inizio la sua malattia. Si è chinato davanti alla volontà di Dio. Ci sono dei disegni che una volta mi sembravano frutto del caos. Poi capii che ero stato chiamato a diventare come il Cireneo che aiutò Cristo sul calvario. Tonino ha continuato a dare coraggio e conforto a tutti quelli che, come lui, erano saliti su quel Calvario.
E come tutti i malati comprese meglio il valore della vita, valore che non comprendi se sei sano. Sosteneva che se l’uomo è creato a immagine di Dio noi dobbiamo rispettare tutti, guardare tutti gli uomini. Curarli e amarli. Mi colpisce constatare come Papa Francesco stia vivendo il suo pontificato come Tonino viveva il suo episcopato, anche da malato.
Qual è stata l’ultima volta che ha incontrato don Tonino?
Era il suo ultimo giorno. Entrai in episcopio e mi accorsi della gravità della situazione. Da tempo era a letto e non sopportava neanche il peso del lenzuolo… Il suo corpo era invaso dalle metastasi. Come medico non avevo mai visto un caso così.
Eravamo quattro amici, sempre intorno per scaldarlo con il nostro alito. Una scena natalizia sul Calvario! Era sera, non c’erano i telefonini e gli dissi «Posso andare a casa, devo sapere se qualcuno mi ha chiamato…»
Da diversi giorni non parlava più, chiudeva gli occhi per dirmi sì e li spalancava per dire no. Gli chiesi se potevo assentarmi e lui chiuse gli occhi. E dissi «Però tu mi aspetti! »
Ammiccò con un sorriso e chiuse le palpebre. Amava dire “parola di uomo” per confermare ciò che diceva e io gli chiesi «Parola di vescovo? » Sorrise ed entrambi fummo soffocati dall’emozione.
Dissi: «Vescovo mi vuoi bene e starai sempre con me?» Non so come, ma incrociò le dite intorno al collo, un gesto straordinario perché non poteva muoversi, e mi abbracciò, coprendomi di lacrime e baci. Lo adagiai sul cuscino. Era esausto. Corsi a casa per sapere se ci fosse bisogno di me. Suonarono le campane. A morto.
Pensai: «Don Tonino non mi ha aspettato». Ritornai in episcopio. Nella stanza di Tonino c’erano alcune persone, tra le quali anche monsignor Luigi Bettazzi. Con l’autorità di medico feci uscire tutti tranne un suo amico, don Salvatore Palese. «Vescovo – gli chiesi – diciamo l’Ave Maria?».
Lui non volle pregare da coricato. Mi intreccio le dita intorno al collo e don Salvatore adagiò i cuscini. Iniziammo la preghiera, mi accorsi che erano i suoi ultimi respiri. Lo adagiai sul letto. Lui guardò fuori dalla finestra, poi un quadretto della Madonna delle Grazie e spirò. Avevo perso un amico come uomo e la battaglia come medico.
Tirai un pugno allo stipite della porta. Uscii per avvisare che don Tonino ci aveva lasciati.
Che cosa le è rimasto di don Tonino?
Una delle ultime volte che aveva chiamato a raccolta tutti gli amici, come un padre spirituale, aveva raccomandato una cosa a ciascuno. A me disse: «tu hai fatto tutto ciò che potevi fare ma bisogna mettere fiori freschi alla volontà di Dio ed accettarla».
Sapeva che mi piace giocare a calcio e mi ha chiesto di dedicargli un goal! Tutti i goal da allora sono suoi! Inoltre aggiunse: «comportati sempre in modo che chi ti incontra dica “beato il giorno in cui ho incrociato i tuoi passi”. Sii uomo fino in fondo e fino in cima».
Che cosa è cambiato in diocesi dopo don Tonino?
Don Tonino è stato uno tsunami. E penso che abbia lasciato un vuoto da riempire con il silenzio. Ha lasciato difficoltà, come uomini uguali a lui lasciano. Non voglio pensare il vuoto che lascerà Francesco ma sarà molto simile. Sono uomini che vivono il Vangelo con radicalità tornando all’antico. Nella diocesi di Molfetta non c’è casa o peschereccio che non abbia l’immagine di don Tonino. Ma non è l’immagine di un uomo, piuttosto quella di un vivere e di un credere. Un esempio da seguire.
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