7 Dicembre 2020
Al via la campagna "A Natale io compro locale"
Il problema non è l’e-commerce a prescindere. Alcuni prodotti sono difficilmente reperibili e spesso l’unico modo per acquistarli è ordinarli su una piattaforma on line. Il problema è il senso (o il non-senso) di comunità che riflette un modello economico piuttosto che un altro. Il fenomeno dello shopping digitale non nasce dal nulla, ma affonda le sue radici in decenni di politiche che hanno sostenuto i grandi centri commerciali, soprattutto quelli in mano alle multinazionali, a discapito della produzione locale e artigianale.
Un esempio su tutti. Se ho bisogno di una libreria posso rivolgermi ad un grande magazzino che mi offre i pezzi per costruirmi in casa un prodotto scadente e di poco valore. Oppure posso rivolgermi al falegname che ha il suo laboratorio a 100 metri da casa mia e con lui pensare ad un prodotto su misura, di qualità, fatto “ad arte” e non necessariamente nuovo. Può anche essere un vecchio mobile, restaurato e adattato alle mie esigenze. Alla fine la differenza di prezzo non sarà così significativa, ma avrò in casa un mobile che vale qualcosa, che ha una storia. Forse – questo sì – dovrò aspettare un po’ di più. Ma ne vale certamente la pena. Lo stesso discorso vale per un prodotto alimentare. Tra un pollo allevato nell’aia e uno ingozzato in un allevamento, c’è differenza. Tanta differenza. Anche di tempi. Ma il fattore tempo, in questo caso, è un valore aggiunto. Certo, questo approccio va contro i diktat del modello economico del “tutto, subito, scontatissimo, direttamente a casa tua”, ma che non guarda in faccia niente e nessuno. È una questione di cultura, prima ancora che di economia. Perché il modello economico dominante separa nettamente il produttore dall’acquirente (non chiamiamolo consumatore!). Meglio non sapere chi l’ha fatto e come l’ha fatto. A te che compri deve solo interessare che costi poco, che arrivi subito, che sia un prodotto che non faccia troppe domande.
Scrive Papa Francesco nell’Enciclica Fratelli Tutti: «“Aprirsi al mondo” è un’espressione che oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”.
Ecco il punto. Solo in questo quadro generale acquisisce senso la campagna promossa dal nostro giornale sui social “A Natale io compro locale”. Non si tratta di uno slogan ad effetto, ma di un invito ad invertire la rotta. A spendere in modo consapevole, ad intessere relazioni – il nostro vescovo lo ripete da tempo – che riflettano una “presa in carico”. L’approccio non deve essere quello dell’elemosina (compro da te così ti do una mano), ma quello della corresponsabilità (compro da te perché mi dai un prodotto di qualità, perché se la tua azienda sta bene, stiamo bene tutti), nell’ottica del bene comune.
Lo sforzo non deve partire dal portafoglio, ma dalla testa e dal cuore.
P.R.
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