24 Giugno 2013
Dall’Africa lezioni di accoglienza

Una denuncia la prima. Un fatto molto grave nei confronti d’una donna prossima a partorire; nei confronti di Gesù, nostro fratello; nei confronti di Dio. È per questo che si son trovati in una stalla. Se la scegli tu, può anche esser piacevole: ricordo le belle serate dai nonni, d’inverno, giocare e dormire nella stalla, era un sogno. Ma è diverso quando una stalla è l’unico posto che ti lasciano gli altri, com’è avvenuto a Betlemme. Come avviene oggi, in tanti posti.
Una speranza la seconda. Una giustizia finalmente realizzata. Sapere che Lui, Dio, un posto ce lo farà, e per tutti e 7 i miliardi di persone che abitano questa Terra. Ci penso molto in questi giorni… Mi trovo in Italia, dove tanti amici mi accolgono con calore sincero, non solo perché sono Giovanni, ma anche perché porto con me un pezzo d’Africa, rappresento Muhanga. Eppure provo ogni giorno una strana sensazione; mi sembra che nell’insieme… «per loro, non c’è posto».
Loro: africani, rumeni, brasiliani, quelli che noi chiamiamo “extracomunitari”, gente del Terzo Mondo. Non solo nel mondo grande dei governi e dei giornali, ma anche nel vivere quotidiano delle nostre comunità, delle nostre famiglie, dei nostri discorsi, dei nostri pensieri, delle nostre preghiere… Quel po’ di vita anche ancora possiamo gestire noi.
Non sempre c’è il giusto spazio, un posto, un po’ di attenzione per l’Africa, il Brasile, l’India… per “loro”. Piccoli gruppi attivi, persone particolari ce ne sono ed anche tante. L’altra sera a Luserna San Giovanni, nei programmi per la festa del centenario della comunità parrocchiale e della chiesa, hanno voluto cinque testimonianze: i diaconi, i giovani dell’oratorio, le mamme che fanno le pulizie in chiesa, la Caritas, l’Africa e il Bangladesh. Hanno parlato non per testimoniare i momenti forti e solenni, ma i momenti comuni, quelli ordinari, vitali. Tra le cinque realtà che fanno il quotidiano semplice ed essenziale d’una comunità parrocchiale, c’era un posto, per loro.
Un posto, un’attenzione ai ragazzi, ai fiori, alla pulizia, a chi non ce la fa ad arrivare a fine mese e a chi non ce la fa neppure a cominciarlo il mese. Ed anche tanti altri segnali. Tante luci. Ma non è ancora per tutti ed ovunque; nella mentalità generale, “quello” è ancor sempre “un’altra cosa”, un altro mondo: per loro, un posto ancora non c’è. «Abbiamo già i nostri problemi!»
Chi è che non ha cantato almeno una volta “Aggiungi un posto a tavola”? Un bel canto.
La nostra generazione ha avuto dei grandi nonni. Anche i miei in campagna avevano un lungo tavolo dove si mangiava; quasi sempre il nonno faceva aggiungere un piatto in più. Un posto vuoto. «Non si sa mai – diceva – può arrivare qualcuno». La generazione di oggi, che è ancora la nostra, dovrebbe riprendere quel gesto. Sulle nostre tavole, anche se sono più piccole. Ma con un altro significato, profondo. I nostri bambini ce lo chiederanno: come mai quel posto vuoto, quel piatto vuoto? E noi glielo diciamo, senza timore di turbare, anzi come momento solenne di educazione: qualcuno non è potuto venire. Manca qualcuno. Gli prepariamo un posto. Un mondo dove si possa dire senza paura: preparo un posto, perché dove ci sto io ci stiate anche voi.
In Africa già lo dicono.
Giovanni Piumatti
(direttore Ufficio Missionario diocesano)
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