02 marzo 2015
Questo che pubblichiamo di seguito è l’ultimo di una serie di articoli preparati da Aurelio Bernardi per “Vita Diocesana”. Lo pubblichiamo postumo cogliendo l’occasione per ricordare la figura del “professore” che ha contribuito con la sua competenza e con la sua carica di umanità alla crescita della nostro pubblicazione.
Quale fu la situazione del cattolicesimo pinerolese nei tristi anni della guerra? Era allora vescovo Giovanni Battista Rossi. Nei documenti d’archivio troviamo il suo pensiero e le iniziative che propose nel periodo che va dal 1915 alla fine della guerra.
Intanto dobbiamo dire che a Pinerolo, come da altre parti, il clero e il popolo erano divisi sull’intervento o sulla neutralità, così anche i vescovi.
In una prima circolare ai parroci e ai fedeli del 20 gennaio 1915, dopo aver accennato al terremoto nell’Abruzzo ed alla raccolta di sussidi, mentre l’Italia non è ancora in guerra anche se si paventa il pericolo scrive: «La Divina Provvidenza finora ci ha preservati dall’intervento della nostra Nazione alla guerra universale: con questo favore ci ha preservati dalla morte di migliaia di nostri soldati, e centinaia di migliaia di feriti, dalla desolazione di migliaia di famiglie e da enormi spese che non tarderebbero a farci sentire il flagello della guerra. È dunque nostro dovere manifestare la nostra riconoscenza alla Divina Provvidenza. E siccome non è ancora scomparso il pericolo che anche la nostra Nazione entri nella guerra universale è nostro dovere invocarne la scomparsa. Un mezzo efficace sia per pagare questo debito di riconoscenza, sia per invocare la preservazione dalla guerra per nostro conto, lo abbiamo nel fare i generosi nel soccorrere i danneggiati dal terremoto nella regione degli Abruzzi».
Ancora in una seconda circolare ai parroci e ai fedeli della diocesi, con l’ordine di leggerla in tutte le Messe la domenica precedente, il vescovo invita alle preghiere per la pace in una giornata di adorazione eucaristica stabilita dal Santo Padre per l’Europa la domenica 7 febbraio e per le diocesi non europee il 21 marzo. Prosegue con questo commento: «Quest’ordine fratelli e figli dilettissimi di fronte alla storia si parla di due fatti nuovi: il fatto della guerra è nuovo nella storia delle nazioni sia per la sua universalità, sia per l’accanimento con il quale si compiono le battaglie, sia per le stragi che ne sono la conseguenza, sia per le modalità delle armi alle quali si fa ricorso. Il secondo è l’adorazione eucaristica della durata di una giornata estesa all’universo cattolico».
Il 28 giugno ancora del 1915 mons. Rossi scrive una lunga circolare pastorale al clero e al popolo nella quale parla della guerra dal punto di vista biblico e storico e delle varie posizioni che si riscontrano nel popolo italiano e tra gli stessi vescovi: «Interventismo incondizionato; neutralità assoluta; trattative per concessioni territoriali» e riconosce che: «la pace ragionevole è da preferirsi al flagello della guerra, però la decisione va lasciata nelle mani delle autorità civili, limitandoci ad invocare l’intervento della Provvidenza affinché faccia ritornare tra le nazioni belligeranti il dialogo e preservi la nostra dalla guerra». Egli dichiara di appartenere, come vescovo e come cittadino, a questa corrente che ritiene la più saggia.
Il 28 febbraio 1916, nella lettera pastorale che prepara alla Quaresima, intitolata “L’intervento della Provvidenza di Dio nella guerra esposto in modo catechistico” ritiene che quella presente si deve considerare «certamente giusta» e che Dio può servirsi della guerra come mezzo efficace per la salvezza delle anime. Elenca inoltre i doveri dei militari, dei congiunti, delle persone agiate e di tutti, onde vivere il tempo di guerra.
Il 4 settembre 1916 con una circolare ai parroci segnala che il Ministro della guerra, avendo bisogno di locali per ricoverare i militari per le ferite e per malattie di altro genere, ha dovuto cedere i locali del Seminario e che i chierici, accettati dal cardinale arcivescovo di Torino, continueranno gli studi nel Seminario di Giaveno.
Nel 1917, in occasione della beatificazione del Cottolengo, in appendice alla lettera pastorale del 3 febbraio, ritorna sull’argomento della guerra come giusto castigo di Dio da subire con rassegnazione cristiana e scrive: «Le nazioni europee si sono rese colpevoli di delitti enormi, si sono ribellate contro Dio e Dio cerca di richiamarle sulla via del dovere col flagello di una guerra universale. Spetta a noi non prendercela contro Dio che giustamente castiga: ma piuttosto rassegnarci al castigo come l’infermo si rassegna a prendere i rimedi prescritti dal medico per riacquistare la salute … noi non possiamo leggere nel libro della Divina Provvidenza il modo dell’efficacia e della necessità della guerra come castigo da Lui voluto e permesso: dobbiamo però credere che come castigo di Dio è certamente ordinato al conseguimento del fine ultimo della nostra creazione cioè per salvarci l’anima. E come tale dobbiamo portarne il grave peso con rassegnazione cristiana».
Nel 1918, nella lettera per la Quaresima “Lo spirito di penitenza in tempo di guerra” scrive perché l’Italia vinca dobbiamo unirci ai soldati con lo spirito di penitenza e, per chi sta a casa, accettare con rassegnazione le privazioni dell’economia di guerra, esercitare la carità e ricorrere alla penitenza sacramentale. Ritorna infine sul desiderio del Papa che si perseveri nella preghiera per la pace, dicendo che lo spirito di penitenza è come le cinque pietre che fanno vincere Davide contro Golia.
In una altra circolare ai fedeli della diocesi del 21 marzo 1918, ormai a guerra finita, scrive: « … Il vescovo di Vicenza con circolare a tutti i vescovi italiani del 18 novembre ci fa sapere di aver visitato le province venete liberate e Trento e di aver trovato che la popolazione manca di tutto: gli alimenti, i vestiti, la biancheria, gli utensili di casa, i mobili, ecc. : la guerra e l’occupazione nemica hanno lasciato la più squallida miseria nelle città e nelle campagne … non si tratta solo dei nostri soldati al fronte o prigionieri, si tratta di nostri concittadini vittime di una sventura che parrebbe incredibile se non ci risultasse da testimoni oculari» e invita ad una raccolta di fondi.
In un’altra lettera al clero della diocesi, del 26 giugno 1919, il vescovo ancora scrive: «Il flagello della guerra si è manifestato in mezzo a noi portando le derrate indispensabili alla vita ad un prezzo così esorbitante che una buona parte dei nostri sacerdoti manca di mezzi necessari secondo il proprio stato.
Di fronte a questo fatto doloroso, la Santa Sede in data 28 giugno 1919 ha disposto in via straordinaria l’elevazione delle elemosine per la Santa Messa a lire 3, la riduzione degli oneri di Messa inerenti i legati» e scrive ancora: «Per causa della guerra, essendo stato requisito il nostro Seminario per uso dei soldati infermi, per tre anni non si sono svolti gli esercizi spirituali per i sacerdoti» e infine «Tutti i sacerdoti che furono militari in tempo di guerra sono obbligati ad un ritiro spirituale di otto giorni interi sotto pena di sospensione a divinis ipso facto».
Il clero pinerolese
È importante ricordare che nel 1916 il censimento della diocesi dà 147 preti, di cui molti però erano anziani o maestri di scuola o beneficiari di cappellanie. Di essi i cappellani militari furono dieci: don Giovanni Barale; don Francesco Berger; don G. B. Canavese; don Paolo Cattibini; don Giovanni Frairia; don Giuseppe Galletto; don Pietro Losano; don Giovanni Lussiana e don Giuseppe Manzon medaglia di bronzo.
Un solo cappellano militare morì sul Pasubio: don Giuseppe Del Monte che era stato vice parroco a Luserna Sacro Cuore, caduto il 30 giugno 1916 sul fronte dell’Isonzo per la ferita di una scheggia alla testa. Era ventiquattrenne e cappellano militare del 4° Alpini Battaglione Aosta.
Prestarono invece servizio militare normale 19 sacerdoti della diocesi e tra questi ricordiamo i più noti: don Luigi Bolla, che sarà vicario del vescovo Binaschi; don Giuseppe Caffaro, che sarà parroco a Baudenasca, don Angelo Rolfo che sarà parroco a Riva; don Giovanni Solera, futuro parroco di San Maurizio; il teol. Gaetano Cattibini, insegnante in Seminario e don Carlo Gay, nominato parroco a Villar Perosa.
Furono migliaia i preti e molti anche i vescovi delle diocesi vicine al fronte internati con l’accusa di essere pacifisti, disfattisti, nemici o “austriacanti”. Questo clero, cacciato dalle sue terre occupate, venne deportato dalle autorità militari, perché considerato dissidente, spedito in varie parti d’Italia. Il parlare di questi sacerdoti e il loro comportamento, collocandosi dalla parte di Benedetto XV, venivano considerati inaffidabili e il 10 febbraio 1916 dichiarati dal comando supremo militare nemici e austriacanti. Nonostante le pressioni del cardinale Gasparri perché potessero ritornare alle loro parrocchie, in particolare i friulani e gli anziani, il comando supremo non cedette dalle sue determinazioni.
L’arcivescovo di Gorizia, sloveno, ebbe 60 dei suoi 80 preti mandati al confino e accusati di spionaggio a favore degli austriaci, così capitò anche per i preti della Venezia Giulia e di Trento.