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Un pinerolese sul tetto delle due Americhe

Un pinerolese sul tetto delle due Americhe

L’Aconcagua è stato salito a dicembre 2016 da Mauro Beccaria: “sono un ragazzo di 56 anni e grazie al mio amore Angelica, che mi lascia sognare, e ai miei genitori che mi hanno dato un cuore e due polmoni straordinari, sono arrivato in vetta”.

Il 25 gennaio alla libreria Mondadori di Pinerolo, Mauro Beccaria, altresì noto come “il pellegrino” ha condiviso con un pubblico di una trentina e più persone, tra amici, conoscenti e semplici curiosi, la sua esperienza della salita decembrina sull’Aconcagua.
Aconcagua, 6.962 m slm, la montagna più alta della Cordigliera delle Alpi Argentine e di tutto il Sudamerica, una delle 7 cime del Pianeta, la più alta della Terra al di fuori dell’Asia. Quindi, per queste caratteristiche la seconda dopo l’Everest. Si trova vicino alla frontiera del Cile, nel Parco provinciale Aconcagua, nella provincia di Mendoza. La via normale non presenta particolari difficoltà alpinistiche. Il rischio maggiore è dovuto ai venti che sferzano la punta anche a 120 km/h, oltre ai cambi repentini del meteo; ed ovviamente alla quota.
Tanto l’entusiasmo del protagonista Mauro, nel raccontare, a cominciare dai preparativi, dall’equipaggiamento e dal desiderio di compiere questa impresa, nato chiacchierando due anni prima con un amico di montagna e di avventura, dopo la salita al Kilimangiaro, che aveva nominato questa vetta per lui ancora sconosciuta. Poi il contatto con l’agenzia di Mendoza in Argentina, “Acomara” e le istruzioni da seguire per prepararsi alla traversata. Quindi la decisione e l’acquisto del biglietto aereo sette mesi prima per Santiago del Chile. Per poi ritrovarsi al 1° di dicembre 2016, sul volo, e quindi sul bus per Mendoza e infine nel primo alberghetto, l’Hostal Savigliano, gestito da Alessandro di Carignano! Che piccolo il mondo. Quindi la formazione dell’equipe, con le guide Mariano e Santiago, il briefing con gli altri scalatori, Sean un trentenne dalla British Columbia (Canada), il 44enne Frenk da Sevilla (Spagna) e Manik dall’India, anche lui di 44 anni. Mauro dice: “mi sentivo il nonno di tutti”. Ma che nonno!? Mauro racconta: «Sono un ragazzo di 56 anni e grazie al mio amore Angelica, che mi lascia e fa sognare, e ai miei genitori che mi hanno dato un cuore e due polmoni straordinari sono riuscito ad arrivare sulla vetta».

Diario di un pellegrino 
Da Mendoza a Penitentes, in minibus, dove si giunge ai margini del Parque Regional Aconcagua.
La prima vera tappa è Confluencia, 3.300 m slm. Qui c’è anche il primo campo tendato, che si contribuisce a montare con la collaborazione dei compagni. Le vettovaglie sono portate da incaricati del posto. Il succedersi dei passi sotto il peso dei 16 kg di zaino, le ore di marcia, a volte sferzati da un vento gelido e violento, sono alternate dalle lunghe ore di sosta. Mauro fa fatica a far passare le ore della notte, nella tenda condivisa con Frenk, ma si sente la solitudine; il sonno è poco. Bisogna bere molta acqua (4-5 litri) con le necessità idriche che questo comporta. Anche la scomodità: non si può uscire di notte dalla tenda, quindi ci si porta una bottiglietta per queste esigenze frequenti.
Il campo successivo è Plaza de las Mulas, raggiunta anche dagli asini che portano il materiale. Quasi due giorni di neve: montare la tenda sotto la neve non è certo facile. E nemmeno uscire alla mattina sotto la coltre di 1,5 metri: bisogna prendere a calci la portina della tenda per uscire. Ed anche spalare fuori! Le guide non si fanno affatto scoraggiare e preparano la pizza ad alta quota. Sono ben organizzati e non fanno mancare nulla agli escursionisti. Vengono incaricati a portare il cibo a Campo Uno Canada, per poi ritornare sui propri passi: questa è una tappa importante di acclimatazione, per permettere al fisico di abituarsi all’altitudine ed all’aria rarefatta. Sono anche sottoposti ai controlli medici in una tenda attrezzata: pressione sanguigna e saturazione dell’ossigeno vengono controllate quotidianamente. Mauro è stupefatto: tutto ok! Campo Uno Canada: viene raggiunto portando ciascuno la propria attrezzatura personale, 16 kg di zaino, non certo poco all’altezza di 4.500 m, per raggiungere i 5.000, al Campo “Nido de Condores”, 5.400, sorvolato da questi rapaci, gli ultimi esseri viventi incontrati lungo la salita, oltre ai compagni di viaggio. Qui si fa sosta due notti. Le guide hanno l’occhio per capire quando c’è un malessere non confessato. Frenk ha difficoltà a nutrirsi, inizia a soffrire di mal di montagna. La salita successiva ai 5.950 m, al “Campo Coleras”; il nome non indica la malattia, ma la collera della montagna: se è arrabbiata non si sale in vetta. Non è un campo grande ed è abbastanza riparato rispetto al campo “gemello” il Berlino. In tarda serata arriva una breve tempesta di neve, che va scemando. Alle 4 del mattina, sveglia, preparazione e colazione. Senza indugio e ritardi, la partenza è alle 5,30 del mattino. Mariano la guida è molto attento e preciso. Non sono ammessi ritardi per non compromettere la salita. Prima difficoltà: la Traversa, ossia un tratto molto esposto al vento, che se questo supera i 40-50 km/h non è possibile passare, perché si mette a rischio la vita, si cammina sui margini di una cresta. Seconda difficoltà: la salita molto ripida e faticosa prima della Canaletta. Frenk non ce la fa e torna indietro accompagnato da Santiago, che poi si rimette in marcia per raggiungerci. Terza difficoltà: la Canaletta. Raggiunta in sei ore di cammino, è un ripido passaggio con pendenza del 70%, molto rischioso col maltempo. Ma questo è un “dia perfecto” come ha commentato Mariano. Non troppo freddo, poco vento, un bel sole che era iniziato a sorgere verso le 7,30. Alla Canaletta si arriva intorno alle 11 e si fa una sosta di oltre mezz’ora per riprendere le forze. Sono state previste soste di 5-10 minuti ogni ora, ora e mezza di cammino. Questa è la sosta più lunga. Mauro si era portato qualcosa di energizzante, viene offerta anche frutta secca e barrette. Non occorre più bere molto, ormai l’acclimatamento è avvenuto, non occorre più portarsi dietro il peso di tanta acqua. Qui rallenta Manik. Per fortuna Santiago li ha raggiunti e lo accompagna con uno scarto di circa un’ora rispetto al gruppetto principale.
Mauro racconta di essere subito dietro alla guida Mariano, che tiene un ottimo passo, lento ma sicuro. Tutti dietro, con i ramponi, le stecche, passo dopo passo. Ma ogni passo è una fatica immensa. La Canaletta viene descritta come “il muro del pianto”. Ma Mariano incoraggia. Dice Mauro: “ci consigliava di non guardare il muro di neve davanti a noi, ma di fare un passo per volta”. Come nella vita di fronte ai problemi. Un’ora e tre quarti per coprire un dislivello di circa 300 metri.Infine, poco prima di una collinetta di pietre Mariano incita Mauro a continuare da solo.
“Come, da solo?”. Ancora pochi passi e poi vede la croce. E’ in vetta. Sulla vetta più alta delle Americhe. Piange con singhiozzi di gioia. Non ha lacrime perché la fatica lo ha prosciugato.
La discesa di 4 ore non è facile ma la soddisfazione è immensa.

Mauro ha iniziato a fare questi exploit anni fa dopo che gli era stato diagnosticato un tumore. Anche allora come adesso aveva lottato per rimettersi in piedi e con quale risultato, fulgido esempio per tutti che “Dove c’è una volontà, c’è una via da seguire”. Prossimo obiettivo il Vietnam, di ritorno dal quale di sicuro avrà da raccontarci altre imprese come questa! Anche sulle nostre Alpi nutre dei prossimi obiettivi: Monviso, Monte Bianco e … qualche via ferrata col sottoscritto.

Lodovico Marchisio

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