24 Aprile 2018
QUALE FUTURO PER LA SINISTRA RIFORMISTA?
Buongiorno Direttore,
nella consapevolezze di aver forse scritto troppo in queste ultime settimane mi preme ancora farVi pervenire le note che seguono.
Sono il tentativo di completare le riflessioni che ho scritto alcuni giorni addietro sul quadro politico che si è venuto a creare in Italia nelle ultime settimane.
Il 20 novembre del 2016 era uscito su La Repubblica un lungo articolo-inserto a firma di Ezio Mauro (in dialogo con Marco Revelli e Paolo Griseri) dal titolo “Viaggio in Italia cercando la sinistra”.
La tappa torinese era idealmente costruita sul percorso delle linee 6 e 3 del tram: dal centro di piazza Hermada alla periferia delle Vallette; 9 km di linea pubblica che sono uno spaccato della Torino di oggi e che spiegavano bene la crisi sociale e il risultato elettorale del giugno 2016.
La Stampa di alcuni giorni fa ha dedicato ad un centro molto più piccolo (ma del nord-est, Monfalcone) un’analisi politica e sociale all’indomani del voto del 4 marzo; città industriale e operaia da sempre roccaforte della sinistra (e del centrosinistra) a partire dal 2013 ha visto profondamente modificarsi i pesi delle forze politiche in campo e oggi il consenso elettorale e la rappresentanza sindacale è in gran parte in mano a M5S e alla Lega che lo interpretono in un’ottica del singolo individuo piuttosto che in chiave comune e quindi collettiva.
Nei giorni immediatamente successivi alle elezioni sono stati pubblicati i risultati di un sondaggio fatto tra gli studenti della Bocconi che evidenziava come il loro voto premiava fortemente il PD e i partiti della coalizione di centrosinistra.
Queste tre “fotografie” ci mettono di fronte ad un dato di rilievo: la difficoltà del PD ad entrare in relazione con quella grande parte di società che ha vissuto e che vive con maggiori paure la crisi in atto e, allo stesso tempo, quella di essere invece considerata l’unica forza politica responsabile e affidabile per una buona parte di coloro che hanno gli strumenti culturali, economici e sociali per vivere con maggiore tranquillità la crisi in atto.
Se non forse per la dimensione il risultato del PD del 4 marzo non arriva però inaspettato; i segnali erano nell’aria ormai da molti mesi e le prime avvisaglie risalgono alle elezioni politiche del 2013.
Il voto del 4 marzo è così, secondo molti osservatori, il punto di arrivo (e di rottura) di una fase storica che ha visto convergere e sommarsi tante criticità di carattere nazionale e sovrannazionale.
L’arretramento del PD e di Forza Italia, i due principali partiti espressione delle due grandi famiglie politiche europee, segna (oltre che la crisi dei due grandi schieramenti) la fine del bipolarismo degli ultimi 25 anni per aprire un quadro politico nuovo dalla cornice ancora indefinita che Mattarella sta cercando di sondare e, nel limite della sua funzione, orientare.
Questo orientarsi del voto al di fuori dei grandi schieramenti politici non è una caratteristica solo italiana; in gran parte dell’Europa stiamo assistendo ad una grande avanzata dei partiti nazionalisti, populisti e sostanzialmente antisistema.
In Italia più che da altre parti la crisi iniziata nella prima metà degli anni 2000 ha fiaccato il paese e soprattutto la classi medie e medio-basse; ne è venuto fuori, poco per volta, un Paese sempre più sfiduciato, diviso, astioso e rancoroso verso le istituzioni e verso le sue classi dirigenti sempre più lette come elite oligarchica; e di questa “aristocrazia democratica” il PD è visto come componente strutturale e di sistematica occupazione del potere, soprattutto al sud.
E il grande e breve consenso elettorale e di credibilità di Renzi (tra il 2013 e il 2015) ho l’impressione che sia, per molte ragioni, da ricondurre allo stesso sentimento popolare e a questa volontà di rottamare la grossa parte del ceto politico e di introdurre novità più che alla capacità di sapere leggere, nell’azione di governo, le spinte riformiste e innovatrici.
E oggi così M5S e Lega (che in modo diverso sono riuscite a polarizzare un voto a partire da un’idea di “società chiusa”) risultano per molti gli interpreti più credibili per ciò che riguarda questo sentimento popolare che mette insieme paura e rivalsa (innanzitutto verso la “casta” e i suoi presunti privilegi).
La “casta”; da anni in Italia è in corso una battaglia culturale (che ha visto purtroppo delle convergenze fin troppo ampie anche da parte di pezzi di giornalismo a noi potenzialmente vicini) contro i partiti e contro la politica nel nome di una visione apologetica della società civile, di un nuovo non tanto ben identificato contro un vecchio invece chiaramente identificabile.
Un moralismo populista molto pericoloso per gli umori antipartitici, antiparlamentari e antidemocratici che, avendo ampio spazio nell’informazione nazionale, ha trovato terreno molto fertile nell’opinione pubblica.
Il PD (ma anche LeU per ragioni di discendenza diretta) come unico partito strutturato ha pagato, per tante ragioni, il prezzo più alto a questa campagna di delegittimazione.
Questi dati (insieme ad un nostro approccio troppo tecnocratico e ragionieristico) ha privato, anche solo dal punto di vista immaginario, di qualsiasi messaggio di speranza il nostro rapporto con la società e il nostro dover essere, allo stesso tempo, forza di governo e di progresso.
Come ricostruire credibilità per trovare senso comune e consenso elettorale non è facile.
Non è infatti facile individuare con lucidità le questioni politiche (inevitabilmente di ampio respiro) che, nella complessità e nella difficoltà, dovranno trovare approfondimento.
Il problema infatti non credo stia solo nel tornare a stare in mezzo alla gente e soprattutto in mezzo agli ultimi; il modo di fare politica è importante solo se unito ad una proposta politica nuova che, in quanto tale, non può partire dalla sola autoassoluzione di un’esperienza (e di un modello) di governo la cui portata non è stata capita fino in fondo e quindi premiata dal voto.
Cosa significa oggi riaffermare i principi di equità sociale e dei diritti dei singoli e collettivi?
Il riformismo e le competenze tecniche sono l’unica strada che rimane alla sinistra per essere tale?
Come è possibile declinare oggi il concetto di sinistra politica e di società aperta?
Provo ad individuare qualche tema che credo debba essere oggetto di maggiore attenzione e approfondimento per una sinistra che abbia nel governo delle trasformazioni la sua finalità.
Un primo tema dirimente che non può così essere rimandato riguarda l’Europa.
O l’Unione Europea modifica le proprie politiche per orientarsi verso la crescita, l’inclusione sociale e la tutela dei cittadini o saranno a rischio i fondamenti stessi dell’integrazione con tutto ciò che ne seguirà e che la storia del ‘900 ci ha già drammaticamente insegnato.
L’avvento della moneta unica aveva generato, soprattutto in Italia (dove storicamente la fiducia nelle istituzioni è più debole), grandi aspettative verso l’Europa e le sue istituzioni; la crisi ha trasformato le speranze in un sentimento quasi opposto (soprattutto nei paesi euro-mediterranei o dell’ex blocco sovietico) che è stato cavalcato abilmente dalle formazioni nazionaliste o comunque antisistema.
Le istituzioni europee sono vissute come luoghi antidemocratici e caratterizzati solo da una logica tecnocratica; questa idea è la stessa che si è diffusa e concretizzata nei confronti di molti dei governi tecnici o di grande coalizione che si sono susseguiti negli ultimi anni.
L’ondata sovranista ha così trovato facili e ampi consensi elettorali nelle fasce più deboli della popolazione (ma non solo) dei diversi paesi membri dell’Unione a partire dalla sempre più diffusa convinzione che sia proprio l’Europa con le sue regole una delle cause principali della difficoltà ad uscire dalla profonda crisi economica e sociale che ha reso i ricchi sempre più ricchi e ampliato di molto il numero dei poveri e delle persone a rischio di povertà.
Un secondo tema, anch’esso di carattere sovrannazionale e per buona parte legato al primo, riguarda i rapporti tra la politica e il capitalismo finanziario (che per sua natura è globale).
A partire dagli anni ’90 la sinistra europea di governo aveva enfatizzato le potenzialità positive della globalizzazione nella certezza che il processo di integrazione europea potesse da solo bilanciare la forza dei mercati finanziari globali.
Sempre a partire dagli anni ’90 abbiamo così assistito al tentativo di riuscire a tenere insieme o quanto meno in equilibrio il pensiero democratico e socialdemocratico (e in Italia anche quello cattolico sociale) con il pensiero neoliberista; il tutto (anche in salsa italiana) mossi dall’illusione neocentrista o di una possibile “terza via”.
Il voto in Italia (ma anche in altri paesi europei) ci dice invece come sia in atto una sempre più forte polarizzazione non verso il voto moderato.
La sinistra riformista è rimasta così chiaramente schiacciata e in parte sconfitta dalla forza e dal peso dell’economia sulla politica. Da una parte la politica, spesso riconducibile a limitati confini nazionali, dall’altra un economia sovrannazionale caratterizzata dall’influenza pervasiva della finanza globale.
Senza riuscire a contrastare l’aumento drammatico delle disparità sociali, culturali e di reddito i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. E tutto questo si intreccerà inevitabilmente con il tema (che da tempo sta incidendo anche sui risultati elettorali) delle grandi migrazioni che stanno segnando e segneranno il rapporto tra noi e i paesi terzo e quarto-mondiali.
Se la sinistra riformista e quindi il PD non saranno in grado di ripartire da questi temi ho paura che possano rimanerci soltanto le competenze tecniche e una cultura riformista sì ma senza popolo e quindi condannata ad essere minoritaria.
Luca Barbero
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