27 Luglio 2017
L'ombra del post-umano sul piccolo Charlie
I Gard la scorsa settimana sono diventati cittadini americani. L’ennesimo colpo di scena, voluto dal Congresso USA, dopo l’incredibile mobilitazione di popolo, gli interventi del Papa e di Trump, che mostra l’entità della battaglia in corso tra nazioni, tra due sistemi sanitari, tra le eccellenze della ricerca e diverse idee sulla bioetica, sul diritto dei singoli. La cittadinanza non poteva arrivare in un momento migliore. È arrivata per ribadire la piena disponibilità americana ad accogliere il piccolo e prima del 25 luglio. La data in cui il giudice dell’alta corte britannica, Nicolas Francis, che doveva decidere se il piccolo potesse oppure no raggiungere gli Stati Uniti, per nuove cure, avrebbe dovuto prendere una decisione; prima di prenderla, esprimendo il verdetto finale, ha individuato tre passaggi.
Il primo di questi è avvenuto lunedì 17 luglio, all’arrivo a Londra, del dottor Michio Hirano, direttore del dipartimento di malattie neuromuscolari del centro medico università Columbia di New York, invitato dallo stesso giudice, dopo essersi confrontati in video conferenza giovedì 12 luglio. A fianco del dottor Hirano vi era anche Enrico Bertini, medico proveniente dal Bambino Gesù, uno degli ospedali che si sono messi a disposizione per accogliere Charlie. Successivamente, i medici del Great Ormond Street Hospital hanno tenuto il consulto tecnico-scientifico con lo specialista americano. Durante tale incontro ha partecipato anche la mamma del piccolo, Connie Yates, dopo che il legale della famiglia, Grant Armstrong ha fatto valere il diritto dei genitori a rimanere vicini al figlio, contro l’ingiusta opposizione dei medici, che non volevano la loro partecipazione. Infine, il terzo passaggio è avvenuto quando i genitori e i medici hanno definito i testimoni da ascoltare nell’udienza finale.
Che cosa è emerso? Nonostante le iniziali buone notizie, sulla possibilità di un miglioramento per il piccolo, portate dal dottor Hirano, le condizioni di Charlie si sono aggravate. I genitori hanno fatto sapere di volerlo «lasciare andare con gli angeli». Il 27 luglio, i giudici del tribunale di Londra hanno deciso che negli ultimi giorni, prima che vengano staccate le macchine che lo tengono in vita, il bimbo sarà ospitato in un Centro di assistenza per malati terminali. Siamo sempre lì: un tribunale deve decidere sui veri diritti delle persone, quelli fondamentali per il bene della persona umana; che per la loro natura, quindi, sono intoccabili, quali la vita e la possibilità di morire accanto alle persone amate, in un luogo familiare.
Mesi addietro, il piccolo avrebbe avuto maggiori possibilità di recupero, eppure i giudici e i medici hanno continuato a sostenere che per Charlie non esisteva speranza e che continuare a somministrargli cure fosse accanimento terapeutico. Niente di più falso, giacché prendersi cura della vita umana, soprattutto quando è debole, esentandola dal calcolo eugenteico costi-benefici, come stanno facendo mamma Connie e papà Chris, e i molti loro amici, è civiltà. Quello dei medici del Great Ormond è stato ed è “accanimento”, al pari di quello del giudice Nicolas Francis e dei 4 gradi di giudizio, tre in UK, uno della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo, che attraverso verdetti hanno dato ragione ai medici in questione. Per il momento bloccati, merito di “leoni” quali sono i coniugi Gard e della mobilitazione internazionale a favore della vita del loro piccolo.
Un accanimento ottuso contro il mistero della vita. Contro la possibilità che la vita, anche quella segnata dalla malattia, possa essere più forte di qualsiasi previsione tecnico-scientifica; di qualsiasi schema razionalistico. Accanimento che ha mostrato tutta la sua intolleranza al “favor vitae” quando è diventato la domanda che il giudice Francis ha rivolto, nelle scorse settimane, ai genitori di Charlie: «Perché volete che vostro figlio viva?» Mancava solo che chiedesse di dimostrare con strumenti finiti, come il diritto, l’amore infinito di un genitore per il figlio.
Come è già stato detto su autorevoli testate, come Tempi, La Verità, La Nuova Bussola Quotidiana, Vita Diocesana Pinerolese, sul sito della fondazione Europa Popolare e anche sulle colonne del piccolo ma vitale blog La Baionetta – e continuare a ribadirlo è usare bene il proprio tempo – la battaglia per Charlie è stata ed è una battaglia per tutti, cattolici e non, purché non abbiano paraocchi ideologici; per me che scrivo, per voi che leggete, poiché prima o poi ci troveremo anche noi in una situazione delicata, in cui avremo bisogno di tenerezza e amore; per tutti coloro che sono malati, piccoli e grandi.
Per questo dalla Federazione Uniamo era arrivato tale messaggio: «la sentenza sul bimbo inglese “segna fortemente il destino di tutti i piccoli” che nascono con patologie rare e complesse. Ed evidenzia come le malattie mitocondriali siano “molto poco conosciute e imprevedibili”. Ma la decisione di “porre fine alle sofferenze” di Charlie non tiene conto delle sue pur flebili possibilità offerte dalla ricerca in un campo ancora tutto da esplorare come quello delle malattie rare». Di fatti la Federazione italiana malattie rare aveva aggiunto: «Molti bimbi con stessa malattia sono migliorati oltre ogni aspettativa medica». E così, si può sottolineare, con maggior ragione, che il bimbo è rimasto intubato per molti mesi: se non avesse avuto qualche possibilità di miglioramento, il suo corpicino avrebbe resistito così tanto? Ma giudici e medici hanno preferito altre domande, purtroppo; così oltre a non prendere in considerazione quanto riportato, si sono mostrati – con accanimento – restii ad affidare Charlie agli ospedali che lo volevano ospitare; anche se i suoi genitori erano in grado di badare a qualsiasi spesa per trasporto e cure, grazie alle tante donazioni ricevute: più di un milione di sterline, da oltre 85.000 sostenitori. Di ospedali disponibili ce n’erano diversi, come il Bambino Gesù di Roma guidato da Mariella Enoch e quello lombardo messo a disposizione grazie all’interessamento del presidente Roberto Maroni, dell’assessore Cristina Cappellini e di Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la Vita.
Insomma, i Gard sono rimasti in ostaggio, perché per i medici «la vita del piccolo non valeva le cure». Tale problema dimostra che qui, prima ancora che di scontro tra pro life e sostenitori dell’eutanasia, tra laici e cattolici, ancor prima della fiducia che si può avere o no nelle cure, si vede l’assurdità che si genera quando a tutti i costi, si diceva “accanimento ottuso”, si vogliono applicare rigorose procedure tecniche all’insondabile mistero della vita. La salute precaria del piccolo, sebbene presenti possibilità di miglioramento, non supera il test tecnico-scientifivo dei nuovi spartani/nazisti. Come se la scienza possa avere sempre l’ultima parola su tutto.
Di conseguenza, è andata in scena, sia nell’aula dell’alta corte britannica, sia nelle sale del Great Ormond, la tirannia della tecnoscienza, che fa credere a chi la impone, medici magistrati politici proprietari di multinazionali (per esempio, Facebook, Google, Microsoft), di essere demiurghi, divinità. Ecco il postumano che avanza. Per capire bene, si legga cosa asserisce il filosofo Vittorio Possenti all’interno della sua opera “La rivoluzione biopolitica. La fatale alleanza tra materialismo e tecnica” (pagg. 130-132): «L’innegabile tendenza della tecnoscienza a pensarsi come un potere universale che si impone dovrebbe renderci ancora più attenti a che non venga minacciata la realtà stessa della società politica quale comunità di liberi ed eguali, regolata da diritto e giustizia, e che non prevalga al suo posto una nuova forma di assolutismo: quello tecnoscientifico, la biocrazia di Comte, intesa come dominio sulla vita e insieme dominio dei tecnoscienziati sulla società». E poi l’autore afferma ancora: «Il rischio maggiore che la tecnoscienza presenta è di naturalizzare integralmente l’uomo, considerandolo infine un mero oggetto. Se la tecnica non può né trasformare l’essenza umana, né produrre la persona, può però trattare l’uomo come un oggetto naturale, e questo dipende dall’uomo stesso, non da supposte intenzioni della tecnica. Quando ciò accade, siamo molto oltre il progetto di Bacone secondo cui scienza e tecnica andavano intese come un aiuto fondamentale di ordine redentivo-restaurativo: “In seguito al peccato originale, l’uomo decadde dal suo stato e dal suo dominio sulle cose create. Ma entrambe le cose si possono recuperare, almeno in parte, in questa vita. La prima mediante la religione e la fede, la seconda mediante le tecniche e le scienze” (Bacone, Novume Organum, L. II, paragrafo 52). Oggi lo strumento di redenzione è divenuto padrone e la tecnica si è emancipata dalla religione. L’ideologia della tecnica favorisce tale distacco, come indicato nel mito di Prometeo. Questi, rubando il fuoco agli dèi per donarlo agli uomini, dà inizio all’interpretazione ideologica della tecnica come hybris antidivina. La connessione tra conoscenza e potere è andata oltre quanto preconizzato da Bacone. La democrazia costituzionale e rappresentativa è oggi chiamata a confrontarsi con un potere assolutamente non rappresentativo quale è quello della tecnoscienza, che non nasce da un’elezione».
Prima accogliamo le parole pronunciate dal professor Possenti e meglio è per tutti noi, e sopra tutto per Charlie Gard e i tanti bisognosi di amore e di cure. D’altronde, il grado di civiltà di una nazione si giudica proprio da come in essa vengono trattati i più deboli.
Per prendere sul serio le parole del filosofo e contrastare i pericoli da lui sottolineati, occorrono gesti ricchi d’amore ragione e di sana dissidenza: il prendersi cura della vita umana, soprattutto quando è debole, esentandola dal calcolo eugentico costi-benefici, come stanno facendo mamma Connie e papà Chris Gard, e i molti loro amici, tra questi Papa Francesco e Trump, è civiltà, altro che accanimento terapeutico!
Prima ancora, occorre “sperare contro ogni speranza”, perché i miracoli avvengono: la positività del reale è più forte di qualunque male. Perciò, anche se tutto pare confermare la fine imminente di Charlie e l’inutilità della mobilitazione, in realtà non è ancora detta l’ultima parola. A tal riguardo, e come conclusione, vale la pena considerare le parole di Costanza Miriano: «In tutta la mobilitazione per Charlie Gard, come anche per il Family Day, non conta solo il risultato concreto: certo, non abbiamo fermato la gloriosa macchina dei “diritti” – in questo caso il diritto di togliere un bambino ai genitori perché dei medici decidano quando vale la pena vivere, quando no – ma almeno l’abbiamo rallentata, abbiamo aiutato i genitori a far conoscere al mondo un’azione che sarebbe avvenuta nel clima sterile e silenzioso di una stanza di ospedale. Grazie al fiume di voci e di preghiere il Papa ha parlato. Trump si è mosso. Il mondo si è mobilitato. Ma anche qui, come per il Family Day, non conta vincere secondo il mondo (anche se anche lì abbiamo cambiato qualcosa). Quello che conta è che un popolo si è alzato in piedi unito. Siamo tanti, tantissimi. La nostra vittoria è cercare di affermare il bene, e i risultati non si misurano con metri umani. Sennò dovremmo dire che anche a Gesù non è andata benissimo. È morto davanti a tutti, non si è alzato dalla croce facendo gesti di trionfali, è apparso, col suo corpo risorto, alla mamma, a una prostituta, un’ex indemoniata e a dei pescatori fifoni. Insomma, apparentemente un disastro. Lasciamo fare a Lui anche questa volta. Consegniamo a Lui il nostro lavoro perché venga il Suo regno».
Daniele Barale
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