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Fatti e opinioni  

L’olocausto secondo Paolo Momigliano Levi

L’olocausto secondo Paolo Momigliano Levi

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, si commemorano le vittime dell’Olocausto. La data ricorda la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Ma perché tanto orrore in quei campi dove milioni di ebrei (e non solo ebrei) hanno perso la vita dopo aver patito fame, freddo, fatiche e umiliazioni?

Paolo Momigliano Levi, ebreo, docente di Storia e Italiano e poi storico presso l’Istituto della Resistenza in Valle d’Aosta, ha approfondito questa tematica nei suoi studi. Spesso è impegnato nelle scuole per raccontare alle nuove generazioni che cosa sia stato l’olocausto. Non solo quello scritto nei libri di storia o nei giornali del tempo, ma anche spiegando quello che accadde alla popolazione ebraica (e non) in seguito alle leggi razziali.

«Mi piace raccontare – inizia il professore – un episodio accaduto nel ’43-’44 in una famiglia ebrea composta da madre, padre figlio e figlia sposata e incinta. Si rifugiano a Laxault e nasce una bimba. Madre e figlia si rifugiano in una baita dove una ragazza del posto, ogni due settimane porterà del cibo. Ultimamente la ragazza che riforniva la giovane mamma è stata intervistata da una mia collega e le ha confessato che lo aveva fatto perché le sembrava giusto, nonostante i rischi, ma le dispiaceva “servire” coloro che avevano ucciso il buon Dio!»

L’episodio è significativo: emerge come, in fondo, le persone siano solidali con i propri vicini. «Gli Ebrei erano 15 milioni, 6 sono stati uccisi nei campi di sterminio, ma milioni di loro si sono salvati grazie a persone normali, a preti e ai conventi che hanno aperto le loro porte!», precisa Momigliano. E aggiunge che «non tutti i tedeschi erano cattivi». Molti erano solo militari che eseguivano gli ordini. «Sicuramente sentivano il peso delle esecuzioni, ecco perché i vertici decisero di far fare agli stessi ebrei i lavori di spogliazione e seppellimento dei cadaveri…»

Così pure alcuni ebrei erano fascisti. «Nell’ottobre del ’38 i tedeschi prendono la famiglia torinese Ovazza, enormemente abbiente, fascista, proprietaria di riviste. La famiglia aveva deciso di andare via da Torino per rifugiarsi all’estero e aveva mandato il figlio in avanscoperta con una “guida”. Il figlio però viene catturato e poi ucciso, il cadavere bruciato nella caldaia di una scuola. I nazisti risalgono al resto della famiglia e li uccidono. Un anello della madre viene venduto a Torino. Mito della razza? Macchè, all’inizio avevano solo bisogno di soldi…»

Momigliano Levi racconta così la deportazione di Primo Levi: «Non era sufficientemente ricco e non lo hanno ucciso! Inoltre non tutti gli ebrei erano ricchi: in Polonia e in Russa facevano la fame».

Momigliano, da storico, sostiene che il razzismo è stata una imposizione dall’alto e che in Italia le leggi razziali del ’38 sono state molto più restrittive che in Germania. «Prima pagina su “La stampa” e a pagina intera. Bastava molto meno spazio, ma era una dichiarazione a tutta l’Europa per chiarire la posizione politica del Paese. Mi sono fatto l’idea che chi tirava le fila erano quelli che detenevano il potere e lo esercitavano anche attraverso la stampa. In questo modo puoi orchestrare una campagna di pregiudizi. Pregiudizi creati per far vedere chi comanda; pregiudizi contro gli Ebrei, un popolo figlio di una diaspora. In Italia erano 45.000 su 45 milioni di italiani, dispersi in piccole comunità e ovviamente senza esercito». Spesso ci si chiede il perché. «Un ragazzo a Biella, uscite le leggi del ’38, va dal professore e gli chiede “Perché?”. Il docente risponde: “Se lo ha deciso il Duce va bene così!”. Dimenticando che non solo lui ma anche il re aveva firmato la legge e che tali leggi andavano contro lo Statuto Albertino di appena 90 anni prima».

Cristina Menghini

 

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