26 Febbraio 2019
L’inconfondibile profumo dei lingotti

Nel lontano millenovecento novantuno entrò in vigore il primo accordo di Basilea, un trattato bancario basato sulla definizione del coefficiente di solvibilità sostenibile. Il Comitato artefice fissò il rapporto fra il Patrimonio di vigilanza (patrimonio di base + patrimonio supplementare) e l’Attivo ponderato (attività in bilancio e fuori bilancio parametrate al loro rischio). Per la determinazione del RCE (rischio di credito equivalente) le varie attività delle banche (titoli, partecipazioni, crediti clientela ecc) devono essere moltiplicate per specifici indici di equivalenza a seconda del profilo di solvibilità del debitore, della categoria di controparte e del Paese di appartenenza. Nella “categoria di controparte” spicca il ruolo degli Stati sovrani cui è assegnato un moltiplicatore di 100, quindi un rischio pari a zero.
Da allora, per i bond statali non è cambiato sostanzialmente nulla, quindi, ai fini dei ratio bancari, si considerano sicuri. È vero! A quel tempo non si immaginava il default di uno Stato e il caso Argentina non aveva ancora snaturato quell’alone di tranquillità che ci aiutava a comprarli, ma oggi, con il senno del poi e le vicissitudini dei Paesi deboli (e indebitati), la certezza del recupero è davvero inattaccabile? O le banche devono rassegnarsi a stanziare dei fondi per eventuali mancati rimborsi? Sintonizzando magari la loro politica del rischio sulle pagelle delle società di rating?
Forse l’accumularsi di bond statali nei loro portafogli, e i controlli sempre più serrati delle Autorità preposte sulla sostenibilità del rapporto rischio/patrimonio, sfocerà nella definizione di nuove regole per parametrare questi attivi al loro rischio reale, asseverando che tale carta non è per niente al riparo da perdite.
Poniamoci comunque una domanda: perché le banche continuano a immagazzinare questi titoli fra gli impieghi?
La ragioni sono tante e articolate; sicuramente non ultima quella accennata: la parametrazione a rischio zero, ma anche, il rendimento, l’opportunità di aiutare lo Stato emittente (ricevendo magari in cambio qualche favore), la possibilità di commercializzarli nel canale investimenti della propria clientela, la gestione di arbitraggi speculativi e di trading a breve, la disponibilità di titoli accettabili in garanzia dalla BCE, per ottenere dei prestiti, la costruzione di derivati, e svariate altre.
Le successive implementazioni del primo accordo di Basilea hanno progressivamente focalizzato il problema del rischio cartolare sui bond sovrani e, con l’attuazione del terzo livello (sottoscritto nel 2016), qualcosa si sta muovendo. Certo, è difficile districarsi fra la necessità di preservare il merito degli Stati più fragili e l’imperativo di mantenere efficiente e sano il Sistema bancario, ma un approccio più realistico alla rischiosità dei bond pubblici s’impone. Proprio nel momento in cui le banche sfruttano questa carta per generare dei profitti, senza scontare alcun accantonamento in bilancio (erosione patrimoniale).
Specificatamente per gli Istituti italiani, poi, sarebbe gravoso (e di difficile attuazione) un adeguamento patrimoniale volto a ricostituire i ratio dopo l’applicazione di un livello significativo di rischio all’ingente portafoglio di BTP (oltre 400 miliardi di euro).
Vero è che attenuatosi l’effetto NPL (spesati o ceduti) e fatta pulizia nei bilanci, questa tegola potrebbe essere meglio supportata, sempre che i livelli di efficienza migliorino, la produttività contribuisca e nuove bufere sul debito italiano non intacchino la fiducia, scatenando lo spread e generando delle perdite, per l’obbligo di valutarlo al valore di mercato.
Qualche giorno fa, passeggiando in Bahnhofstrasse a Zurigo, sono stato avvolto da un inusitato profumo d’oro stagionato. Accarezzava i deliziosi aromi delle pasticcerie svizzere e sembrava provenire dalle segrete della Banca Nazionale. Mi è parso eccezionalmente forte e persistente, segno evidente che lì si sta ancora privilegiando la sempiterna brillantezza dei lingotti. È non è solo la BNS, ma tutte le banche centrali e anche le altre (occidentali e non), a costruire nuovi caveau per accumulare altro oro, nella certezza che dal prossimo futuro sarà l’unico attivo esente da qualsiasi rischio di bilancio (e anche operativo). Quindi parametrato al cento per cento del valore nominale (prezzo corrente) nella definizione dei ratio patrimoniali.
Gli esperti definiscono “Gold standard” un sistema basato sull’oro e il metallo giallo sta attraendo (in sordina) una miriade di compratori, investitori, in cerca di un bene rifugio, e banche, in cerca di plusvalenze ed equilibri patrimoniali. Più sopra ho citato il prezzo corrente, quindi esiste comunque un rischio di mercato legato alla quotazione del metallo e alle variazione della divisa che supporta le contrattazioni, (il dollaro USA). È un’alea che i grandi operatori possono tenere sotto controllo utilizzando i derivati e spostando il prezzo sul mercato dei future. Possiamo quindi considerare giusto, accedere ad attivi capaci di preservare il patrimonio? Quando, per ricostituirlo bisogna contare su investitori poco o nulla propensi a sottoscrivere delle azioni bancarie?
E i BTP saranno in gran parte liquidati, per essere sostituiti con l’oro? O sarà meglio affrontare l’eventuale inserimento di un livello di rischio continuando a beneficiare dei notevoli vantaggi (reddituali e non) che quel portafoglio apporta alle fameliche casse bancarie?
Sergio Martini
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