28 Aprile 2025
Il referendum sulla cittadinanza serve davvero?

Una riflessione sul quesito referendario che l’8-9 giugno 2025 in merito all’opportunità di facilitare la concessione della cittadinanza agli stranieri.
L’8 e il 9 giugno saremo chiamati a votare cinque quesiti referendari, quattro in materia di lavoro e uno per modificare la norma di concessione della cittadinanza italiana. La volontà è di abbassare da 10 a 5 gli anni obbligatori di residenza in Italia, per uno straniero, per poter chiedere la cittadinanza. Questo cambiamento non riguarda né gli immigrati di origine italiana, né i rifugiati i quali, rispettivamente, oggi devono risiedere nel nostro Paese, tre e cinque anni. Tra i promotori della consultazione spuntano Riccardo Magi, deputato di +Europa e “fuoriclasse” dei referendum – nel 2022 promosse quelli sulla legalizzazione di Cannabis ed Eutanasia giudicati incostituzionali dalla Consulta –, Emma Bonino, Pippo Civati ex parlamentare del PD, Ouidad Bakkali deputata del PD e don Luigi Ciotti fondatore di LIBERA. Oltre a +Europa a sostenere l’iniziativa sono sette partiti: PD, Sinistra Italiana, Europa Verde, Radicali, Rifondazione comunista, Socialisti e Possibile. A loro si aggiungono circa novantuno associazioni, tra le quali, curiosamente solo quattro formate da stranieri: Movimento migranti e rifugiati, Bangladesh immigrant’s association, Italiani senza cittadinanza e l’associazione avvocati albanesi in Italia.
Ma questa modifica è davvero necessaria? Secondo la Carta italiana dei valori, della cittadinanza e dell’integrazione, del 2007, ad ogni straniero residente nel nostro Paese sono garantiti il diritto all’istruzione, alla salute e al lavoro. In quest’ultimo caso è prevista la garanzia di un equo compenso per la prestazione lavorativa svolta, nonché di sostentamento in caso di infortunio o malattia e il versamento dei contributi per sanità e previdenza. Insomma tutto ciò di cui beneficia un italiano. Le uniche differenze sono che gli stranieri devono presentare, con cadenza regolare, la richiesta di ottenimento del permesso di soggiorno lavorativo (ndr. qualora non siano rifugiati) – per verificare se possono ancora rimanere in Italia – e non godono del diritto di voto. Ma per ottenere quest’ultimo è essenziale accorciare i tempi per poter richiedere la cittadinanza? Secondo i dati Istat, più recenti, nel 2020 solo il 38% dei ragazzi stranieri, residente in Italia da meno di 10 anni, si è detto italiano – percentuale differente se si analizzano le varie etnie – dato che dopo il decimo anno sale al 53%. Altro dato interessante, che esamina il periodo tra il 2011 e il 2012, rileva che, a fronte del 39,3% di stranieri che afferma di non avere nessuna difficoltà con l’italiano, solo 17 su 100 frequentavano un corso per imparare la lingua italiana, che per ottenere la cittadinanza occorre padroneggiare a livello B1. Quest’ultimo punto induce a riflessioni poiché si tratta dell’unico requisito “culturale” richiesto. Se pensiamo agli Stati Uniti, con la società massimo esempio mondiale di Melting Pot – nonostante sia sufficiente risiedere solo cinque anni – la conoscenza dell’inglese non basta per diventare cittadini. Occorre infatti superare un test di civiltà americana, dove si dimostri la conoscenza della storia e del sistema politico del Paese. Tornando ai numeri, lo scorso febbraio, l’Eurostat ha pubblicato i dati relativi alla concessione di cittadinanze nei paesi dell’Unione nel 2023. Su circa un milione di nuovi cittadini europei è stata la Spagna a dare più cittadinanze con una percentuale pari al 22,9%, ma subito dopo l’Italia col 20,3%. Si tratta di 213.600 nuovi italiani, il 91% dei quali proveniente da un paese non UE. Seguono Germania e Francia che, rispettivamente, hanno concesso il 19% e il 9,3% di cittadinanze. Anche se si potrebbero fare numerose altre riflessioni il quadro che emerge è sufficiente per rispondere alla domanda del referendum al quale “qualcuno” ci ha chiamati a votare.
Lorenzo Battiglia
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