29 Novembre 2021
150 anni dalla nascita di don Luigi Sturzo, paladino della lotta alla mafia
«La mafia stringe nei suoi tentacoli giustizia, polizia, amministrazione, politica; la mafia oggi serve per domani essere servita, protegge per essere protetta, ha i piedi in Sicilia ma afferra anche a Roma, penetra nei gabinetti ministeriali, nei corridoi di Montecitorio, viola segreti, sottrae documenti, costringe uomini creduti fior d’onestà ad atti disonoranti e violenti. Il dubbio, la diffidenza e la tristezza invadono l’animo dei buoni e si finisce per disperare. È la rivelazione spaventevole dell’inquinamento morale dell’Italia, sono le piaghe cancrenose della nostra Patria, la immoralità trionfante nel governo». L’analisi lucida e spietata è di don Luigi Sturzo: la lotta alla mafia è un aspetto sostanzialmente poco conosciuto del prete siciliano nato 150 anni fa. Nel febbraio 1900 porta in scena «La mafia», dramma in cinque atti.
Chi era don Sturzo
Fautore della partecipazione dei cattolici alla vita politica, ma rispettoso del «Non expedit» e assertore della coerenza tra vita religiosa e impegno politico, è antifascista fino al midollo e resta fedele al binomio inscindibile di libertà e democrazia, a patto di non farsi schiacciare dallo statalismo. Nasce a Caltagirone (Catania) il 26 novembre 1871: il padre discende dai baroni d’Altobrando e la madre è di famiglia borghese. Sacerdote dal 19 maggio 1894, si laurea in Teologia alla Gregoriana, si iscrive all’Università della Sapienza e all’Accademia San Tommaso d’Aquino. Entra in contatto con don Romolo Murri (Democrazia cristiana) e Giuseppe Toniolo (Movimento cattolico). Nel Seminario di Caltagirone insegna Filosofia, Sociologia, Diritto Canonico, Italiano e Canto sacro; promuove cooperative agricole, casse rurali, società operaie, che infastidiscono liberali e conservatori; fonda il giornale «La croce di Costantino» che i massoni bruciano in piazza. Prosindaco e vicepresidente dell’Associazione dei Comuni italiani, punta sul rinnovamento dell’economia meridionale, sulla media e piccola proprietà, sul rifiuto del protezionismo e dell’assistenzialismo statale, sull’ampliamento delle autonomie locali.
Fondatore del Partito Popolare
Vuole rinnovare il Paese: per questo fonda il Partito popolare il 18 gennaio 1919. Vuole educare il popolo, formarne la coscienza, favorire una cultura della legalità e della moralità. Amministratore locale, si scontra con i mafiosi che usano metodi violenti per condizionare il voto dei cittadini e i politici che praticano la corruzione elettorale. Per le elezioni politiche del 6 aprile 1924 parla di «pagina scandalosa per l’illegalismo più sfacciato, per la truffa elettorale, per il trucco elevato a sistema, per la delinquenza fatta signora e padrona della Sicilia».
Fascismo e mafia
Sull’operazione antimafia del prefetto Cesare Primo Mori scrive che «epurò la mafia nel modo più fascisticamente pubblicitario. Tutto il mondo seppe che quel che né i Borboni di Napoli, né i governi liberali di Roma avevano saputo fare in un secolo, Mussolini fece in un anno. Mussolini si accorse che i mafiosi siciliani facevano del vento di fronda al sopraggiungere di una mafia in grande quale il fascismo. Molti furono fascistizzati, gli altri mandati in galera». Sturzo lo scrive dall’esilio americano nel novembre 1943 in un articolo in cui critica alcuni comandanti anglo-americani che favorivano in Sicilia il peggio della classe dirigente, latifondisti e agrari con simpatie separatiste e relazioni pericolose con la mafia.
Non un innocuo costume siciliano
È uno dei pochi politici che denunciano una mafia criminale e non come innocuo costume isolano. Nel 1949 scrive: «È di moda, lo scrive la stampa comunista e lo ripete quella indipendente, dire che la mafia in Sicilia sia fenomeno di povertà e di condizioni economiche arretrate. A farlo apposta la mafia fiorisce nella Conca d’oro, tra Palermo-Villagrazia-Monreale e si estende in zone prospere quali Carini e Partinico. Cosa andrebbero a fare i mafiosi se non potessero estendere il loro potere e i loro intrighi nella distribuzione delle acque irrigue, nella vendita dei giardini, negli affari di armenti e greggi, nei mercati di carne, nei traffici dei porti, negli appalti di grosse opere pubbliche e private, nelle anticamere delle prefetture e dei municipi? Forse non hanno mai visto mafiosi siciliani a Roma, andare e venire dai ministeri?»
Un fenomeno culturale
A fine degli anni Cinquanta osserva che il fenomeno mafioso «si è trasferito dalle campagne alle città, dai latifondi alle case degli uomini politici, dai mercatini locali agli enti pararegionali e parastatali. Povera Sicilia mia, povera Italia: ora la mafia diventerà più crudele, e dalla Sicilia risalirà la Penisola per andare oltre le Alpi». Sostiene che per combattere le mafie bisogna comprenderne la presenza non come sottosviluppo economico ma come problema culturale, morale e religioso. Potrà essere sconfitta con un profondo cambiamento di mentalità, un “riarmo morale” che porti a non idolatrare denaro e violenza». In un articolo del 1958 sostiene che «l’economia senza etica è diseconomia» e che «l’utile degli associati a delinquere non è qualificabile come bene comune».
Le tre “male bestie” della democrazia
Non si ferma a denunce astratte ma interviene sui nodi cruciali della storia italiana con analisi spietate su concussione, conflitto d’interessi dei «controllori-controllati» e identificando nello statalismo, nella partitocrazia e nell’abuso del denaro pubblico le tre «male bestie» della democrazia.
Il testamento ideale
Vecchio di 87 anni, nel gennaio 1958 lancia il suo testamento: «Una parola moralizzare la vita pubblica! Dove e quando essa è stata mantenuta sulla linea della moralità? È questa l’aspirazione popolare: giustizia, onestà, mani pulite, equità. Pulizia! Pulizia morale, politica e amministrativa. Solo così potranno i partiti presentarsi agli elettori in modo degno per ottenere i voti; non mai facendo valere i favori fatti a categorie e a gruppi; non mai con promesse personali di posti e promozioni; ma solo in nome degli interessi della comunità nazionale, del popolo italiano, della Patria perché la moralizzazione della vita pubblica è il miglior servizio che si possa fare alla Patria nostra». L’8 agosto 1959 muore a Roma , rimpianto come una delle figure più luminose del cattolicesimo democratico italiano.
Pier Giuseppe Accornero
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