20 Maggio 2014
Un caffè a Venezia
20 maggio 2014
29 dicembre 1720, Floriano Francesconi, sotto le Procuratie Nove, apre un Caffé. Lo chiama “La Venezia trionfante”. I veneziani lo ribattezzano subito con il nome del proprietario: Floriàn.
Tutti lo conoscono. Soprattutto i balenghi che scrivono ai giornali lamentando l’alto costo delle consumazioni.
Paghi il nome, la qualità, il personale, l’orchestrina. Se vuoi spendere un euro, vai in uno dei cento bar che circondano la Piazza.
Qui tutto è come allora.
Nel Canaletto le Procuratie Nove con il Floriàn sono esattamente come le vediamo oggi. Se Tintoretto, Bosch, Daumier, Turner, dipingono la società attraverso la magica lente interiore che mette in luce le sue reali fattezze, Canaletto – e, in genere, i vedutisti del Settecento – guardano Venezia attraverso un cannocchiale: cosa che restituisce una Venezia “depurata” da magagne e contraddizioni.
Canaletto lavora sotto la protezione di un importante collezionista, il famoso Console – in realtà era solo Residente – inglese Smith. Gli inglesi del “Grand-Tour” compravano i quadri di Canaletto come oggi si comprano le cartoline “Saluti da Venezia”, e mica si potevano far vedere i “picai” alle colonne di Todaro e del “Leone” della Piazzetta, proprio come oggi nei “Saluti da Roma” non compaiono file di auto blu che scorrazzano contromano (Oliviero Toscani lo farebbe).
Questo non svilisce l’opera di Canaletto: in filigrana, affiorano talvolta le contraddizioni sociali. Guardiamo il particolare del dipinto “Le Procuratie con il caffé Floriàn”: a semicerchio Canaletto dispone le classi sociali: la vecchina con i bàcoli (bastoni), due manovali sugli scalini, due borghesi di bassa estrazione sulla base del pilastro, un figurino con una tazzina di caffè che li guarda con spocchia, nobildonne sedute al Floriàn che conversano con un nobilomo; osservate la postura di quest’ultimo: altezzosamente e rigidamente dritta (sembra la postura di un ufficiale di cavalleria del XIX secolo).
Caffettiera: non vi è ancora la “napoletana” a parlarci dell’Arte e della società: vi è un bollitore e una cuccuma; due pezzi, ma ce la raccontano bene. Pietro Verri (Storia naturale del caffè, 1765): «I grani del caffè piccoli e di colore alquanto verdastro sono preferibili a tutti. Dipende in secondo luogo la perfezione della bevanda dal modo di prepararla, ed io soglio abbrucciarlo appena quanto basti a macinarlo, indi reso ch’egli è in polve, entro una caffettiera asciutta lo espongo di nuovo all’azione del fuoco, e poiché lo vedo fumare copiosamente gli verso sopra l’acqua bollente, cosicché la parte sulfurea e oleosa, appena per l’opera del fuoco si schiude dalla droga, resti assorbita tutta dall’acqua; ciò fatto lascio riposare il caffè per un minuto, tanto che le parti terrestri della droga calino al fondo del vaso, indi profumata altra caffettiera col fumo del legno d’aloe, verso in essa il caffè che venite a prendere e che trovate sì squisito».
Così come i vedutisti truccano l’immagine di Venezia, anche i caffettieri usano fantasia nella preparazione della bevanda. Sentite Narciso quando istruisce i garzoni (Carlo Goldoni, La bottega da caffè): «Anemo, spiritosi,/Disinvolti, graziosi/Ché per spazzar la nostra mercanzia/Sora tutto ghe vuol galantaria./Via, brusè quel caffè. Mettèghe drento/Quattro grani de fava,/E acciò chel para fresco,/Mettèghe una porzion d’orzo todesco./Per burlar i golosi/Che impenisse de zuccaro la tazza,/Bisogna ogni mattina/El zuccaro misciar co la farina./Chi no fasse cussì, no viverave:/Tanto fittto de casa e de bottega,/Mobili capital, garzoni e lumi/Xe una spesa bestial; ma questo è ‘l manco./ Se no fusse La protezion de certe paronzine/Che in bottega ne fa conversasion./Anderessimo tutti a tombolon».
Cose d’oggi.
E cose d’oggi anche la satira che Gaetano Zompini espone in un garbato disegno:
«… vende mantecca al conte ed al marchese/ costei tutta vezzosa e tutta brio. Ma se ho da dirvi il sentimento mio/ il capitale è mercanzia franzese».
Ad un certo punto a Venezia le “Bodeghe da acque” (I caffettieri erano iscritti all’Arte degli Acquavitieri) erano ben 206; in quasi tutte – tranne il Floriàn e poche altre – si giocava e si ospitavano galanti incontri: boteghe da Maroni: – “magnamaroni” uguale ruffiani – si diceva.
La Venezia trionfante, dunque. Ma c’era poco da trionfare. Venezia sta perdendo i pezzi: proprio al tempo in cui Floriano apre il suo Caffé, la Serenissima perde, con la pace di Passarowitz, anche il regno di Morea. È consapevole del proprio declino; una poesia di Anzolo Maria Labia entusiasta per lo splendore della Venezia Settecentesca (la douceur de vivre) dove l’oro e l’argento scorrono come la spazzatura (va co le scoazze ) si conclude con lo struggente : «E pur, no so el perché, mi pianzaria».
Più severo Goethe: «San Giovanni in Bragora si chiama quella chiesa, a buon diritto allora chiamo oggi Venezia San Marco in Bragora» (Bragora: luogo per maiali: grufolavano in quel Campo, ora rinominato “Bandiera e Moro”).
Non si vuole un Bosch o un Turner. Non contano Piranesi – che viene spedito a Roma -, lo scarruffato Marieschi e il suo plagiatore Albotto, il lagnoso Guardi – vedetelo nel quadro di Giuseppe Bettini (Il pittore Francesco Guardi offre in vendita i suoi quadri, Milano, Galleria Civica d’Arte Moderna, 1892) mentre si aggira tra i tavolini del Floriàn tentando di vendere i suoi quadri, «absit iniuria verbis». Per il Teatro: Goldoni il finto buono che ammazza più lui, di veleno nel minestrone o nel caffè, dei Borgia – I due gemelli veneziani ; anche lui viene spedito via, a Parigi (Con il medesimo destino di “Fantozzi-san” che fugge in una tranquilla cittadina giapponese… Hiroshima).
Bene. Tutta questa gente, zeppa di caffeina (una bottega ogni 50 fruitori), non può che andare in overdose e produrre opere che esaltano la grandezza della Serenissima. Trionfalistiche le tele d’epoca: vedi a Ca’ Rezzonico Giambattista Tiepolo: La nobiltà e la Virtù che abbattono la Menzogna: grazie a come frantuma la composizione, a come la discioglie nel cielo, a come fa volteggiare i personaggi inebriati dalla libertà degli spazi celesti, in filigrana traspare il messaggio educativo: un regesto della Saggezza e della Forza della Serenissima. Tutti contenti, ma guardate che facce incavolate hanno il Doge e i dignitari nella tela di Canaletto Il Doge a San Rocco.
Ma, prossimamente, terminato il discorso su Venezia – paradigma ineludibile – dobbiamo trasferirci a Pinerolo. È un lavoro difficile, lo so bene, ma qualcuno deve pur farlo.
Sergio Santiano
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