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Cultura  

Pietra dolce: la forza di una lingua che non vuole morire

Pietra dolce: la forza di una lingua che non vuole morire

“Pietra dolce”.
Vite dure.
Storie amare, ma capaci di covare sempre una speranza.
Il secondo romanzo di Valeria Tron, che segue “L’equilibrio delle lucciole”, è una conferma. Soprattutto dell’originalissima poetica nella quale il patois non è un accessorio, ma un lievito per la lingua italiana, che ne esce arricchita di immagini e di significati.
La vicenda si svolge su due linee narrative (più una) che viaggiano parallele, planando sul tempo, per poi incontrarsi e svelare radici e vite attorcigliate.
Il cuore della storia pulsa nell’alta Val Germanasca. Solo un ponte separa questo ritaglio di Alpi dal resto del mondo che, di valle in valle, di sentiero in sentiero, di mare in mare, arriva fino a El Aguilar, in Argentina. E ritorno.
I protagonisti hanno nomi che li nascondono prima ancora di rivelarli: Lisse, Giosuè, Tedesc, Lumiere, Mina, Jul. Ciascuno porta dentro ferite, abbandoni, fulmini e segreti. E poi c’è la miniera di talco con il suo oro bianco che fa sanguinare i polmoni, ma si lascia plasmare per restituire nidi di bellezza.

“Uomini e bestie tu salvi”, si legge in quella Bibbia che la cascata, abbrancata alla montagna, sembra sfogliare con noncuranza, assistendo schiumante a disgrazie e miracoli. Uomini e bestie, in queste pagine, fondono le loro esistenze volendo e volendosi bene, come la capra Beretta o il corvo Bas.

“Pietra dolce”, proprio come i minatori, non si ferma alla superficie, ma scava a mani e parole nude fino al midollo della montagna per estrarne preziosi frammenti di senso e di libertà.

P.R.

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