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Cultura  

Vacanze intelligenti: il Marocco tra bellezza e povertà

Vacanze intelligenti: il Marocco tra bellezza e povertà

Il racconto di un trekking alla scoperta un mondo pervaso da mille contraddizioni

Nove giorni trascorsi per buona parte su sentieri montani, notti passate in tenda, paesaggi ed ambienti aspri, villaggi caratteristici, greggi di pecore, uomini e donne in abiti tradizionali, la preghiera dei muezzin, la piazza di Marrakech, la tipica contrattazione levantina su ogni cosa. Questo ed altro ancora è stato il trekking organizzato Serena Maccari, presidente dell’Associazione Diomedea dal 6 al 14 luglio scorsi. Il primo giorno è stato dedicato ad alcuni dei monumenti più celebri di una delle antiche capitali del Marocco: il Palazzo Bahia (tipico esempio di architettura arabo/moresca), il Museo etnografico locale, la scuola coranica. Inutile nascondere che il fascino del legno del cedro del Medio Atlante, dei mosaici di maiolica (blu di Fez, verde di Marrakech), dei giardini interni, dei marmi di Carrara giunti qui in cambio di partite di zucchero, è stato travolto dai mille colori, dai variopinti linguaggi, dall’intrecciarsi di odori, dalle continue proposte di acquisto provenienti dalle circa quasi ottomila botteghe del souk. Il luogo centrale di Marrakech doveva però ancora presentarsi a noi con il suo doppio volto: quello diurno e quello notturno. Il centro di una spirale che ti ipnotizza e attrae a sé, ti rapisce e, nel momento che ti restituisce alla tua libertà ti ha comunque cambiato: ecco Jemaa el-Fna la piazza del mercato (il nome in arabo significa Venerdi dell’impiccato). Di giorno la piazza ti accoglie con i mille mestieri che ospita: incantatori di serpenti, cantanti e cantastorie, musicisti, indovini, improvvisati fotografi accompagnati da macachi, venditori di mille mercanzie che possono costituire un ricordo da mostrare agli amici al ritorno nei propri luoghi di origine. Verso le 17 la piazza comincia a trasformarsi: vi iniziano a fluire un’organizzazione di panche di legno, impianti elettrici, assi, cucine, batterie di pentole e piatti. Quando si accendono le lampadine ed i generatori di corrente a kerosene, le panche dei banchi numerati dei ristoranti, che si sono formati nel frattempo nella parte centrale della grande spianata, si riempiono di avventori. I camerieri servono la carne ed il pesce con le mani nude, raccolgono le patatine fritte dall’olio bollente, alzano la voce per invitare i passanti. L’aria si riempie del fumo attraente della brace, che rende irreali i contorni dei minareti. Donne di ogni età ti convincono a farti tatuare con l’henné (perlopiù disegni floreali per le donne, scorpioni per gli uomini), gruppi di uomini si concentrano attorno a lottatori improvvisati. Anche il più scettico alla fine non può fare a meno di farsi travolgere da questo enorme caravanserraglio di opportunità. A poche centinaia di metri nella strada verso i Riad (tipici alberghi locali) si affollano i mendicanti, disperati di ogni età. Colpiscono le bambine ed i bambini che ti avvicinano per venderti piccole cose di uso quotidiano. La mattina dopo si parte verso la catena dell’Atlante e da qui, fatta conoscenza con la guida locale, con il cuoco ed i conducenti di muli inizia il trekking vero e proprio. La catena dell’Atlante in territorio marocchino si estende per quasi 1000 chilometri, noi ne percorreremo circa 120 in una settimana, sempre su sentieri, quasi mai su piste, sempre in salita ed in discesa. Su questi monti anche l’ambiente arido è ricco di colori e forme: tutte le sfumature degli ossidi sembrano essersi date appuntamento qui. Le valli non sono da meno, disegnando pennellate verdi nel cuore di terreni più desertici. Qui sorgono gli ksour, villaggi fortificati, con i loro granai e le loro abitazioni in terra rossa a cui fanno da contrasto i parallelepipedi di cemento forati da finestre che si presentano come cavità senza anima. Dove le abitazioni hanno mantenute le caratteristiche edilizie ed architettoniche originali la loro povertà è celata dai tratti caratteristici, dove invece è prevalsa l’occidentalizzazione i villaggi appaiono come povere favelas. Il pensiero di molti di noi si rivolge ai bambini, alle loro carenze, ai loro bisogni. Più ci si addentra nell’interno e più traspare ancora la separazione di ruoli dei sessi. Alcune donne ti incrociano ma guardano altrove, come il religioso che ignora completamente i tentativi di Serena di aprire con lui un dialogo; due mondi che, in quel momento, sono l’uno di fronte all’altro, ma con comportamenti inconciliabili: lei che ingenuamente cerca di carpire qualcosa della sua attività e lui altero che la ignora con totale sicurezza di sé rivolgendo la parola ad un altro uomo sopraggiunto nel frattempo.

«In Marocco non piove mai», questo è il simpatico tormentone che ci accompagna per tutto il trekking. Invece, a dispetto delle previsioni, ha sempre piovuto! Il primo giorno di trekking giungiamo in una casa dove veniamo ospitati in una stanza con il pavimento completamente coperto di tappeti bagnati fradici. Da quel momento non mancherà nello zaino di ciascuno di noi una tela cerata e una giacca impermeabile. Lungo il percorso toccheremo Imlil (conosciuta come la Chamonix marocchina), il passo Tizi n’Ouanoums (3664 metri) collegato ad una lunga valle dominata dal lago di Ifni le cui acque color smeraldo riflettono il colore rosso ocra delle montagne vicine. A quelle acque quasi nessuno dei partecipanti al trekking riuscirà a resistere negandosi un bagno ristoratore. La notte precedente alla vetta dormiremo in tenda all’esterno del Refuge Toubkal del Club Alpin Francais de Casablanca. Il 12 di luglio al primo mattino siamo sulla sommità Toubkal, la vetta più alta del Nord Africa con i suoi 4167 metri di altezza. Le sue cime sono spesso coperte di neve sino a giugno (vi si pratica lo sci-alpinismo soprattutto tra febbraio e marzo), salendo lungo i pendii rocciosi del massiccio del Toubkal, gli alberi diventano sempre più radi. Ad una ad una le specie vegetali cedono di fronte ai rigori del clima. L’ultima ad arrendersi, talvolta ben oltre i 3000 metri, è il ginepro turifero, che riesce ad affondare le sue radici in semplici crepe della roccia.

Un grazie dovuto va alla guida, al cuoco, ai conduttori di muli che con la loro serietà, gentilezza e professionalità hanno dato un’impronta indimenticabile a questo trekking.

MAURIZIO TROMBOTTO

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