6 Luglio 2014
La trasgressione nei dipinti e nella vita del Caravaggio
6 luglio 2014
Del patrimonio italiano di arte – la moneta forte che ancora agli occhi del mondo fa premio sulle nostre debolezze di cultura civile – Roberto Longhi, storico e critico dell’arte di Alba, è stato uno dei più attenti e profondi studiosi. Suo, nel 1951, il focus critico a Michelangelo Merisi di Caravaggio (a motivo della sua vita doppia e moralmente discutibile non aveva avuto dopo la sua morte nel 600 -spentasi l’eco della sua rivoluzione pittorica – e ancora nel 700 e nell’800, il giusto riconoscimento) che gli ha definitivamente conferito la statura di artista universale. Tant’è che oggi il pittore milanese del Barocco romano è forse l’artista della storia dell’arte più acclamato, sentito come nessun altro nostro contemporaneo.
Allievo di Longhi alla Facoltà di Lettere dell’Università di Bologna, Vittorio Sgarbi aveva già scritto un paio di saggi su Caravaggio. Ora ne è uscito un terzo in libreria: “Il punto di vista del cavallo”. Un piccolo libro, prezioso di intelligenza critica, splendido di riproduzioni dei lavori dell’artista. A Bologna anche Pier Paolo Pasolini era stato allievo di Longhi. Sgarbi ne trae spunto per assimilare in modo suggestivo la “vita violenta”, sul filo della trasgressione, dell’artista Caravaggio a quella dello scrittore e cineasta di Casarsa, entrambe finite in una morte tragica e atroce.
Il titolo del saggio, “Il punto di vista del cavallo”, è il geniale fil rouge ermeneutico dell’arte caravaggesca, interpretata con riferimento paradigmatico alla “Conversione di san Paolo” della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Folgorato dalla luce dal cielo e dalla voce di Cristo, Saulo – Paolo di Tarso è caduto da cavallo. Ma Cristo non appare: il campo visivo è dominato dal deretano e dai fianchi possenti dell’animale. Anche quando l’arte era bella pittura fatta con i colori e i pennelli, è stato detto, rimaneva artigianato finché replicava all’infinito un modo di fare. L’arte è creativa quando trasgredisce i canoni e se ne inventa di nuovi. La grande cultura visiva occidentale nasce in chiesa, figurazione simbolica e, nel 600 ancor più, catechistica, di icone, immagini di Dio, Cristo, la madonna, i santi, le storie bibliche, i misteri cristiani. Caravaggio terremota i codici iconografici di secoli, la sua pittura racconta il sacro raccontando il farsi del reale, dell’umano. Cosa c’è di più trasgressivo, più universalmente “moderno”, più aderente al principio di realtà, più fotografico – Sgarbi richiama la celebre fotografia di Robert Capa del miliziano colpito che cade morente nella guerra novecentesca di Spagna – che dipingere la conversione sulla via verso Damasco di Paolo, «vestito da romano, con la spada, il mantello, la corazza», simboli del potere che convertendosi perderà, dal punto di vista del cavallo, nella sfera simbolica di un credente, quale Caravaggio era, e tuttavia perfettamente laica? Caravaggio dipinge la “Madonna dei pellegrini” della chiesa di Sant’Agostino con il volto di popolana di Lena, la prostituta sua amante, conosciuta in tutta Roma. Ai giovinetti, ai bacchini dei suoi primi lavori presta le fattezze efebiche, languide, di pasoliniani “ragazzi di vita”, di strada: il volto di ragazzo di “Amor vincit omnia” della Gemaldegalerie di Berlino, Sgarbi fa vedere, è singolarmente somigliante a quello di una foto giovanile di Pino Pelosi, l’amico di Pasolini che ebbe una parte rimasta oscura nel mistero del suo omicidio. I popolani, i pezzenti dei dipinti di Caravaggio «rappresentano il quarto stato, la lotta di classe, il popolo alla conquista della storia, l’artista è convinto che il regno dei cieli appartenga a loro, come dice il Vangelo». Una sorta di sospensione di giudizio, di duale tolleranza correva tra l’artista e il mecenatismo dei committenti, delle gerarchie della chiesa di Roma. Che era consapevole della carica antagonistica, sovversiva di quella pittura e al contempo di quanto la sua formidabile energia, il principio di realtà, di verità, il rappresentare le cose per quello che sono, funzionassero come collante di fede, ideologico. Tolleranza che durò fintanto che la condotta del personaggio Caravaggio non divenne indifendibile anche da parte di un potente mecenate come il cardinale Francesco Del Monte. La sorprendente modernità dell’artista è quella di appartenere al tempo che lo capisce, che lo sente contemporaneo. Niente lega Caravaggio al suo tempo, «tutto invece lo lega a un tempo psicologico, che è appunto di vedere la realtà così com’è e come si determina».
SERGIO TURTULICI
LASCIA UN COMMENTO
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. Visualizza l'informativa privacy. I campi obbligatori sono contrassegnati *