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Cultura  

La forza della gazzella

La forza della gazzella

Un racconto di Marie Mediatrice Nyiraminani segnalato al Concorso Lingua Madre 2010 Nel mio paese non ci sono le feste di compleanno e nessuno si registra alla nascita. Nessuna candelina da spegnere e nessuna torta. Da noi non si mangia e basta, con o senza compleanno.
Ho iniziato la scuola, come tutti i bambini, quando la mia mano destra è riuscita a toccare il mio orecchio sinistro passando sopra la testa. Funziona così: quando riesci a fare questo esercizio la catechista dice che sei pronto per la scuola e che hai sette anni. Chi ha proprio fretta di iniziare può sempre inclinare un po’ la testa e il gioco è fatto. Io ho iniziato a frequentare nel 1971, quindi dovrei essere nata nel 1964. Anno più, anno meno.
Mia sorella Matarasa, invece, è nata nel 1971 ma, a causa dei suoi problemi di salute, mia mamma ha “deciso” che era nata nel 1975.
Questa ragazza è l’ultima della famiglia ed è venuta alla luce con un ritardo mentale. A tre anni non camminava ancora. A sette sembrava una bimba di quattro. Così ha iniziato la scuola a dicei anni per sembrare al livello degli altri. La prima l’ha ripetuta quattro volte ma non è riuscita a superarla. Nel mio paese un ritardato mentale deve raggiungere gli stessi risultati di quelli senza problemi. Cosi lei è stata mandata via con tante umiliazioni. Nonostante io fossi maestra in quella scuola non ho potuto fare nulla. In Rwanda è così.
I suoi problemi potevano essere dovuti all’alimentazione: in quel periodo non avevamo più le mucche e mancavano le proteine. Già la penultima sorella aveva avuto dei problemi di kwashiorkor, la malattia della mal nutrizione. E per Matarasa le condizioni erano ancora peggiorate. Mia sorella soffriva di rachitismo, non cresceva. Tuttavia, quando io ho finito le scuole superiori, a casa abbiamo iniziato ad avere un regime alimentare più equilibrato, così durante l’adolescenza ha recuperato, almeno in parte, il terreno perduto. L’abbiamo aiutata noi, perché in Africa non puoi essere handicappato, non c’è uno stato sociale. Se ne deve occupare famiglia.
Poi è arrivata la guerra. In Rwanda è iniziata nel 1990. Le conseguenze vere, però, si sono manifestate nel 1994, quando io sono partita. Era il momento in cui non si poteva uscire. C’era la guerriglia nell’aria.
Sapevo che sarebbe venuto qualcosa di peggio. Sono salita sull’aereo e quando è decollato ho fatto il segno di croce con la certezza che non avrei mai più visto “quel” Rwanda. “Quello che lascio qui spero che non mi segua”, ho pensato.
Sono rimasta in ansia da aprile a luglio quando ho saputo che il luogo dove abitava la mia famiglia era stato bombardato. Ma i miei erano tutti fuggiti. Abitavano vicino alla frontiera e, nella fuga, un gruppo è andato a nord e un altro a sud. Chi era andato verso nord pensava che mia sorella fosse con l’altro gruppo e viceversa. E di Matarasa si sono perse le tracce. Lei è andata con un gruppo di profughi in Burundi, ma anche lì la guerra li perseguitava, così sono arrivati fino in Tanzania.
Terminata la guerra, la gente ha iniziato a tornare. Chi era fortunato trovava la sua casa. Ma i militari al potere lo impedivano: ti prendevano e ti massacravano. Qualcuno è rimasto in Zaire. Alcuni della mia famiglia sono fuggiti. Altri sono morti. I massacri erano all’ordine del giorno. Il 22 aprile 1997 a Kibeho sono state uccise più di venticinquemila persone in una chiesa. Hanno sparato per due giorni! Lì è morto anche mio fratello.
Dopo quel massacro i profughi si sono riversati alcuni nello Zaire, altri in Burundi dove la situazione era la stessa del Rwanda. Così molti hanno perseguito fino in Tanzania. Quelli che sono andati nello Zaire sono stati seguiti e massacrati, alcuni perché miliziani, altri per la “colpa” di essere ancora vivi, non importa se hutu o tutsi.
Quelli che dopo uno o due anni non erano tornati a casa venivano dichiarati morti. Per la mia famiglia anche Matarasa era morta a Kibeho. Per me no! L’ho cercata da Roma anche tramite la Croce rossa ma non ha trovato nessun riscontro. Tuttavia non ho perso la speranza. Mia sorella era viva, ne ero certa.
Passano gli anni. Intanto la Croce Rossa della Tanzania chiede ai rifugiati di fare una scelta: prendere la cittadinanza o tornare ai propri paesi. Tutti i rifugiati sono stati riportati a casa, rwandesi e burundesi. Tra questi profughi c’era mia sorella. Matarasa stava con uomo burundese da cui aveva avuto quattro figli (uno è morto). Arrivata nel Burundi, però, i parenti di lui non l’hanno voluta perché “senza famiglia”. Nessuno sapeva da dove venisse, non aveva nessuno e lei non ricordava nulla, neanche il suo nome. Diceva di chiamarsi Cristina. Questo io non potevo saperlo e continuavo a cercarla con il nome di Matarasa.
In Burundi per Cristina-Matarasa è inziato un nuovo calvario. Lei non era in grado di occuparsi nemmeno dei bambini senza l’aiuto della Croce Rossa. Anche per questo la famiglia del marito ha cominciato a maltrattarla e a farle subire ogni sorta di violenza.
All’inizio del 2009, nella sua mente fragile si fa strada un ricordo: il Rwanda e la frontiera. Così, con la forza della disperazione, con il coraggio e l’incoscienza della preda braccata, ha lasciato i bambini ed è partita. Ha camminato a piedi per due giorni con pochi soldi in tasca. A chi incontrava chiedeva indicazioni su come raggiungere la frontiera. Ma interrogava soprattutto la sua anima smarrita nel buio. Così ha viaggiato per più di trecento chilometri, un po’ in auto e un po’ a piedi. Sola. Nella foresta. E nella foresta quando arriva la notte è buio sul serio. Qui, in Italia, il buio non lo conosciamo più, non sappiamo che cosa sia. Là la notte è buia. È la notte dell’Africa.
Dopo tanto peregrinare finalmente la frontiera.
È stata subito riconosciuta. Sul confine c’è sempre qualcuno dei nostri che va a bere la birra di banana o fare qualche acquisto alle bancarelle. Quindi la telefonata in Italia: “È un miracolo: tua sorella è viva!” L’ho sentita e mi ha raccontato di lei e dei bambini.
Mi mi sono attivata subito. Ho parlato con una amica e abbiamo deciso di aiutarla: i bambini dovevano stare con lei e con la mia famiglia dove sarebbero stati nutriti e non maltrattati. Così ho detto a mio fratello: “Torna con lei. Vai a vedere questi bambini”. Così sono partiti loro due. Matarasa non ricordava le strade percorse perché aveva viaggiato spesso di notte. Mio fratello ha faticato parecchio a trovare il luogo. Laggiù non ci sono insegne e indicazioni; solo campi e foresta. Al suo arrivo mio fratello ha trovato una situazione disastrosa: i bambini con i parassiti ai piedi, vestiti male, denutriti. Quando i parenti del padre hanno visto mio fratello hanno detto: “Finalmente! Allora anche tu hai una famiglia”.
Con quaranta euro mio fratello e mia sorella sono andati in Burundi e sono tornati a casa con i bambini. Ma non tutti. I parenti del padre si sono rifiutati di lasciare andare la bambina più grande che ha otto anni. Sicuramente vogliono… un ricordo e forza lavoro. Ma in Africa se non hai ancora la capacità di portare 25 litri sulla testa a 8 anni sopravvivere diventa difficile. Per questo mi sto attivando affinché anche questa bambina raggiunga i suoi fratelli e la madre.
È così che abbiamo ritrovato mia sorella. È stata lei, anima fragile di gazzella, a raccontarci la morte di un fratello, di due nipoti e di mia nonna.
In questi quindici anni di attesa ho sempre saputo che mia sorella era viva. Non mi davo pace. Non potevo rassegnarmi a pensarla tra i milioni di morti del Rwanda. Ma avere notizie è tutt’altro che facile. Nessuno racconta che cosa sia successo davvero. Nessuno dice la verità su questo paese dei grandi laghi. Non si è ancora detto chi sono stati i veri responsabili dei massacri e perché la guerra è diventata così cruenta. I rwandesi si volevano bene. L’odio tra tutsi e hutu è un’invenzione. I paesi che ci circondano, hanno sfruttato le etnie per il potere e per la ricchezza, le hanno aizzate l’una contro l’altra.
Non esistono differenze tra i tutsi e gli hutu. In Africa i poveri sono poveri e vanno d’accordo. Non si definiscono né tutsi né hutu.
La guerra è stata la maschera per fare i porci affari dell’occidente.
La guerra ha aiutato i leoni a divorare le gazzelle.
Nonostante la guerra, qualche gazzella è riuscita a salvarsi.

Marie Mediatrice Nyiraminani – Cristina Menghini

Marie Mediatrice Nyiraminani vive a Cantalupa e lavora presso il Fer di Pinerolo. Il racconto, segnalato al Concorso nazionale Lingua Madre Duemiladieci, è inserito nel libro “Racconti di donne straniere in Italia” presentato mercoledì 27 ottobre 2010 presso il Circolo dei Lettori di Torino

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