03 marzo 2015

Promessi Sposi. L’Innominato, fra Cristoforo e Renzo: tre personaggi trasformati dalla grazia

«Tutti fatti a sembianza d’un Solo, /figli tutti d’un solo Riscatto, /…siam fratelli; siam stretti ad un patto…». Il coro del “Carmagnola” (bellissima la sintonia con il concetto di “liberi fratelli e sorelle di Gesù Cristo” espresso da papa Benedetto nella sua prima messa di Pentecoste, e con i due messaggi di papa Francesco per la Giornata della Pace) può continuare a dar suggerimenti alle nostre riflessioni manzoniane. Esploreremo questa volta le connessioni tra l’esperienza della conversione e il modo di relazionarsi con il concetto di “potere”.
Il vocabolo “potere” (sostantivo e verbo) copre una gamma diversa di significati: da “dominio esercitato su qualcuno” a “essere in grado di, capace, competente”.
Quando la consapevolezza delle proprie potenzialità e il desiderio di dispiegarle vengono percepiti, in se stessi e negli altri, come parte di quella “vocazione allo sviluppo” che caratterizza la persona umana in quanto tale (e in cui il cristiano vede un segno della sua chiamata a crescere verso la comunione con Dio) ecco che ciascuno può esercitasre il diritto/dovere di scoprire, coltivare, far fruttificare serenamente i propri talenti per il bene comune. E in quest’ottica, anche l’esercizio di “un potere” può trasformarsi, di fatto e non solo di nome, in una sana e utile forma di servizio alla comunità.
L’Innominato, fra Cristoforo e Renzo, i tre personaggi manzoniani che vivono in modi diversi la conversione alla nonviolenza e all’amore fraterno, vivono anche la scoperta o il consolidamento di questo “significato positivo” di “potere”.
L’ultima angoscia disperante che vorrebbe bloccare la conversione dell’Innominato assume le vesti dell’interrogativo: «Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?»
Ed ecco che il Cardinal Federigo gli illumina la via d’uscita: Dio può utilizzare le sue caratteristiche psicologiche, i tratti della sua personalità (che fino ad ora hanno fatto da substrato ai suoi crimini) per volgerli nella direzione del bene, per aiutarlo a compiere, nel bene, cose più grandi di quanto egli, da solo, abbia potuto progettare e realizzare nel male. Nel momento in cui l’Innominato comincia a rendersi docile all’azione di Dio, Dio potrà realizzare anche nella sua vita ciò che in quella di Federigo ha compiuto da sempre, potendo contare sulla sua disponibilità fin dall’inizio. Federigo si guarda bene dal parlare di sé ponendosi come esempio; ma il personaggio letterario di Federigo si caratterizza proprio per questa scelta di fondo ben presente anche nel Federigo storico (accanto a condizionamenti culturali anche pesanti, che Manzoni non tace): mettere tutte le proprie risorse, intellettuali, morali, spirituali, sociali, economiche a disposizione di Dio e del prossimo, per vivere una vita impegnata, utile e santa, dove qualsiasi forma di “superiorità” su qualcun altro si trasformi in occasione di servizio, e non ci sia nessun posto per “distinzioni” e “privilegi” (in questo senso, Federigo è stato anche un protagonista della propria educazione, dandosi obiettivi spirituali superiori a quelli individuati da certi suoi educatori, e “smontando” lucidamente i loro tentativi di farlo apparire come “il principe” del collegio).
Scoprendosi voluto, cercato, amato dall’infinito amore di Dio, lasciandosi perdonare e salvare, l’Innominato non pensa più, come era accaduto nella terribile notte, di fuggire dal castello, da se stesso, dalla vita. Liberato dalla solitudine tremenda, cominciando, con la guida di Federigo, a sentirsi dolcemente unito al popolo dal mistero della comunione dei santi, in cui ciascuno collabora alla salvezza degli altri e gioisce per il bene che ricevono e fanno, sceglie di affrontare lucidamente la realtà: rimarrà dov’è, per riparare nella misura del possibile il male fatto, servire, aiutare, continuando ad esercitare quell’attitudine alla leadership che la conversione non ha affatto indebolito, come percepiscono immediatamente bravi e servitori dopo il “discorso” che conclude il primo giorno della sua nuova vita. La sua conversione è trascinatrice, diventa subito evangelizzazione degli ex complici. Distrugge un “sistema di sicurezze” basato sulla violenza e il terrore, per crearne un altro basato sul rispetto per la sua storia interiore, per il bene che compie, per la sua scelta radicale di circolare sempre disarmato, offrendo la propria persona a qualsiasi vendetta.
Manzoni è molto preciso, lucido nel delineare complessità e ambiguità di un contesto storico-giuridico in cui i pubblici poteri, lontani da una visione moderna dello stato di diritto e privi degli strumenti per affermare una vera legalità statale, non chiedono all’ Innominato di rispondere penalmente dei reati commessi e continuano a permettergli di gestire una sorta di “potere politico-militare di fatto”. Ma nella situazione di arbitrio diffuso e di perenne emergenza che caratterizzano quell’angolo di mondo durante la Guerra dei Trent’Anni, anche quella sorta di “azioni di polizia” ideate dall’Innominato per difendere i profughi e gestirne l’ordinata convivenza al castello assumono un ruolo di pubblica utilità.
Il “potere positivo” che fra Cristoforo scopre di avere sta nell’esercizio della parola. Suo padre si era destreggiato tra le disuguaglianze istituzionalizzate dell’epoca per dargli una “educazione signorile” con lezioni di lettere ed esercizi cavallereschi. Questi ultimi non gli servono più, gli appaiono anzi come il simbolo stesso di una conflittualità con cui ha chiuso per sempre: in nome di una vita povera, penitente, capace di accettare e valorizzare (mentre suo padre aveva perso l’autostima per la sua antica attività commerciale) anche i servizi più umili. Ma le lettere gli servono eccome: gli permettono di accedere al sacerdozio, di sviluppare la capacità di predicare a diversi tipi di uditorio, semplice e colto, con omelie a braccio ed elaborati testi scritti (come ricorda con fraterna ammirazione fra Galdino, capacissimo di rallegrarsi per ciò che i confratelli sanno fare e lui no, perché l’obiettivo che dà senso alle loro vite e alla sua è l’evangelizzazione, non il successo individuale). L’eloquenza è un dono da trafficare per il Regno, per consolare, sostenere, inquietare le coscienze spingendole alla conversione; per rivolgersi a ricchi e poveri, vittime e oppressori. Per svolgere i compiti assegnati a padre Cristoforo dai superiori e quelli che si è imposto da sé: «accomodar differenze, e proteggere oppressi».
Renzo, come Lucia del resto, ha sempre avuto una sana fierezza della propria professionalità: si sente parte di un gruppo, quello dei tessili milanesi, stimato per la sua abilità anche “all’estero” e perciò dotato di una “forza contrattuale” nei confronti dei padroni («gli operai milanesi alzan la cresta; chi vuol gente abile, bisogna che la paghi»). Questa fierezza ha sempre fatto parte di quei valori umani, spirituali, ambientali positivi che confluiscono tutti nella vocazione matrimoniale come via alla santità e lo hanno aiutato a distogliersi dalle ricorrenti tentazioni di vendetta. Quando queste non ci sono più, e la vocazione matrimoniale si concreta, la professionalità si sviluppa ulteriormente diventando anche capacità imprenditoriale, creatrice di lavoro e di vita, all’interno di una generale “disponibilità ad apprendere” non soltanto in senso strettamente professionale, ma come generale “filosofia esistenziale”. E in questo “amore per l’apprendimento” si situerà anche la scelta dell’alfabetizzazione per i figli, nella convinzione che l’istruzione è indispensabile per crescere da persone libere e responsabili, non ingannate e sfruttate. Una intuizione che pone Manzoni in sintonia con i grandi educatori cristiani dell’Otto e Novecento.

Anna Maria Golfieri

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