2 Dicembre 2012
Il mestiere dell’antropologo
Incontro con il professor Paolo Sibilla, studioso di culture alpine
«Se non è sul campo non è vera ricerca etnografica e la ricerca sul campo ha bisogno di tempo». È una delle tesi che il professore Paolo Sibilla ha sostenuto giovedì 15 novembre durante la conferenza “Percorsi di Antropologia Alpina” tenuta al Circolo Sociale di Pinerolo. Sibilla, già docente presso l’Università di Torino, ha presentato al pubblico alcuni principi generali di antropologia e, più in specifico, il frutto dei suoi studi raccolti nel volume “Approdi e percorsi. Saggi di antropologia alpina”.
Lo abbiamo incontrato per qualche approfondimento.
Professore ha svolto studi anche nelle nostre vallate?
Attualmente sto studiando i movimenti dei montanari nei secoli scorsi e il loro rapporto con l’ambiente. Mi occupo specialmente delle motivazioni che spingevano gli uomini in inverno a diventare minatori.
Per la precisione questo studio, come mio consueto, parte dalla Valle d’Aosta con le miniere di rame, carbone e antracite. Cresceva già alla fine del 1700, con l’avvento delle nuove tecnologie, la richiesta di carbon fossile, più redditizio di quello vegetale, e di altri materiali.
Gli uomini lavoravano nell’agricoltura e nell’allevamento, la vita era difficile, si lavorava tutto il giorno tutti i giorni. Perché allora andare anche in alta montagna durante la stagione fredda per calarsi nelle miniere? In inverno, per un uomo non c’era molto lavoro e la donna badava alle bestie. In miniera si poteva guadagnare qualcosa. Ma a caro prezzo! Come dimenticare la strage del Beth? E, per assurdo, quando faceva freddo e nevicava era meglio perché si potevano usare le slitte. Altrimenti si trasportava il materiale a valle a dorso di mulo o a spalle.
Confesso, però, che sono poco documentato sulla Val Chisone interessata con un fenomeno più recente dalle miniere di talco e grafite, meno redditizie di quelle di metalli.
Ha sempre lavorato da solo per le sue ricerche?
In genere sì. Ho collaborato con colleghi illustri ma sono convinto che i migliori lavori siano stati fatti dai singoli. Sul campo, naturalmente!
Lei è cattolico. Ma la maggior parte degli antropologi sembra piuttosto lontana da una fede vissuta…
Non sono gli antropologi che sono secolarizzati… è un po’ tutto questo periodo. Anche solo cinquanta anni fa nessuno avrebbe osato dare il nome di un santo a un animale, oggi sì. L’antropologia è olistica, cioè una terra di confine che per comprendere la complessità dell’uomo si serve di tutte le sue sfaccettature. Se il mondo è laico – termine improprio! – lo diventa anche l’antropologia. Ogni antropologo si occupa, proprio per l’estensione della materia, di un aspetto specifico e la parte religiosa non è più di tanto approfondita. La religione attrae quando è insolita, diversa, spettacolare. Quando è folclore. I vecchi storici delle tradizioni facevano questo. La storia è importantissima ma la visione antropologica è altro. Spesso una tradizione religiosa diventa una attrazione turistica, vista come qualcosa di importante, ma artificiale e poco sentita a livello spirituale. L’antropologo oggi trascura la religiosità vissuta. Il sacro, nella mia materia, era importante fino a che c’erano gli antropologi delle religioni. Oggi sono veramente pochi.
I suoi prossimi studi?
Continuerò nelle mie ricerche ma adesso avrei voglia di impegnarmi maggiormente nell’ordine dei Cavalieri di Malta di cui faccio parte.
Cristina Menghini
Paolo Sibilla è nato a Rivoli nel 1938. Dal 1958 al 1970 ha prestato servizio quale Sottufficiale Specialista in Servizio Permanente nell’Arma Aeronautica e ha fatto parte di equipaggi di volo.
Nel 1971 intraprende la carriera universitaria. Ha insegnato presso diversi atenei italiani (Trento, Torino, Genova, Novara) ed esteri (Argentina, Brasile, Francia). È in pensione dal 2010.
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