17 Febbraio 2012
Il fuoco sulle montagne
I falò dalle tradizioni magiche dei celti alla festa dei valdesi Il 17 febbraio per i Valdesi è il giorno di festeggiamento per le ricevute libertà costituzionali concesse dal Re Carlo Alberto nel 1848, tramite la promulgazione delle cosiddette Regie Patenti con cui si concedevano ai “religionari” sabaudi non cattolici (e particolarmente protestanti ed ebrei) pieni diritti civili e politici. In quella giornata, dopo la notizia giunta alle Valli e nel Pinerolese, scoppiò una autentica, spontanea, manifestazione di gioia che condusse, come immediata e prima manifestazione esteriore, alla accensione – sui crinali delle montagne del Pellice, del Chisone, e della Germanasca – di innumerevoli fuochi, che diventarono nel tempo i famosi Falò.
La poetessa valdese Ada Meille ha descrito, in un suo componimento del 1964, la sensazione percettivo-ideologica dei Falò del Popolo Valdese con queste parole: «O fratel mio che meco Sali, guarda / nova una stella sul monte s’accese / e un’altra … e un’altra su ogni vetta appare / e fanno cenni come a salutare … / Sono i falò del popolo Valdese».
La suggestione vivida di queste gioiose accensioni consecutive, apparse sui nostri monti per festeggiare quell’evento, continua da quel giorno ininterrotta, sebbene più ridotta nella sua diffusiva quantità.
Ne rimane il ricordo storico, che riporta però ad altre analoghe manifestazioni ignee di festeggiamento del passato – al di là delle circostanze politiche e religiose di quella specifica espressività valdese – con possibili corrispondenze verso altre tradizioni locali ed antropologiche, appartenute ad una ritualità comunitaria ben più complessa e antica, risalente ai riti magici e di culto delle popolazioni celtiche di quei luoghi montani (sviluppatasi anche nella immediata pianura).
L’idea di questa allargata correlazione con la storia atavica del sito (e ancora più della storia), viene – altrettanto poeticamente – suggerita dal noto pittore (anch’egli valdese) Paolo Paschetto, che ha significativamente rappresentato, in un sintetico disegno del 1925, l’evento dei Falò valdesi come insieme sparso di portentose fiamme, ovunque disposte sui versanti montani, molto più simili ai fuochi sacri della Bibbia o delle leggende antiche, che non ad una semplice sequenza di pire di fascine pastoral-contadine.
La sacralità dei falò storici è del resto altrimenti documentata, tornando indietro nel tempo, in corrispondenza con le festività commemorative di San Giovanni che dal Medioevo fino all’Ottocento ancora, si praticavano in Piemonte nelle campagne (e particolarmente a Torino, sul sagrato del Duomo, dedicato a quel santo) accendendo appunto una enorme catasta lignea data felicemente alle fiamme.
Una tradizione certamente di carattere propiziatorio ed augurale, poiché la sera di San Giovanni, con la sua scadenza annuale al 24 marzo (al giungere del solstizio d’estate che ne segna la notte più corta dell’anno), concludeva la stagione invernale e cominciava un nuovo processo di crescita (quello della primavera), che aveva però indubbie provenienze pagane (e che il Cattolicesimo ha mantenuto, integrandolo nel repertorio delle abitudini tradizionali).
Una magia comunque difficile da eliminare, soprattutto per l’effetto piacevole del calore del fuoco (risalente ai primordi della evoluzione della specie umana), e per l’ipnotica sua immagine rappresentata dalle fiamme crepitanti in continuo movimento.
Una sensazione che, infatti, i più remoti abitanti delle valli pinerolesi (e non solo di questi territori) conoscevano bene, e alimentavano nelle ritualità dei santuari naturali sui pascoli di tutto l’arco alpino abitato dai Celti.
L’origine di tali riti rimanda alla prassi druidica di festeggiamento del dio Belanu (una versione ligure-piemontese della divinità celtica del fuoco Bel, il “brillante”) la cui emanazione fisica si ritrovava nella forma del falò acceso nella ricorrenza del “fuoco luminoso” (Beltane), di cui si posseggono notizie dal X secolo prima di Cristo ma la credenza verso la quale retrocede alle culture gaeliche irlandesi.
Secondo questa tradizione, i Druidi accendevano grossi focolai sulla cima dei colli, e li facevano attraversare dal bestiame dei villaggi in segno di purificazione e conservazione (procedimento che poi venne esteso anche alle persone, e il cui ricordo dura fino ad oggi nella credenza che chi salta sopra le fiamme, per quell’anno non soffrirà di problemi renali).
La pratica magica di Beltane (che identificava la conclusione dell’Inverno e l’inizio conseguente della “metà luminosa dell’anno”), dalle popolazioni celtiche viene estesa anche alla domesticità del focolare delle case: dove ogni fuoco, nel giorno di scadenza della festa, veniva spento per essere subito ritualmente riacceso prendendolo dalla fiamma collettiva appositamente apprestata in un grande falò attizzato al centro del villaggio.
Se vogliamo, in questo criterio di continuo rinnovamento igneo si può cogliere l’eco lontana dei, sebbene differenti ideologicamente, Fuochi Sacri dell’antica Persia zoroastriana, tenuti accesi in templi appositi su altari specifici (di cui qualche esemplare, concesso ancora dal regime iraniano attuale, persiste tutt’oggi) che dovevano bruciare ininterrottamente, e che gli stessi monarchi provvedevano personalmente a mantenere ad ogni ri-nomina dinastica.
Abbiamo spaziato non poco nelle culture delle tradizioni storico-religiose delle fiamme sacre, con cui ovviamente il Valdismo non ha alcuna attinenza (e la cui sostanza deriva da una più contingente ritualità contadina di eliminazione delle scorie agrarie), ma i cui Falò comunque non possono fare a meno di ricordarne le lontane – per quanto diverse – matrici antropologiche, e provenienze cultural-religiose.
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