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Cultura  

Il calice di Lutero

Il calice di Lutero

Come ho riportato nel mio scorso articolo sulle sacre reliquie di Wittenberg, conservate dal loro proprietario e collezionista, l’Elettore di Sassonia Federico III il Saggio (protettore del riformatore protestante Martin Lutero), tenute tutte nel proprio palazzo principesco ed annualmente esposte nella Chiesa del Castello cittadino dedicata ad Ognissanti, alla morte del loro detentore – avvenuta nel 1525 – tutti gli oggetti di quella ingente raccolta (19.013 pezzi complessivamente), vennero prima ritirati (e non più esibiti: in quanto i suoi elementi, molti dei quali erano falsi, venivano considerati anche di impropria venerazione, e quindi di generica idolatria) e poi venduti, decenni dopo.
Essi scomparvero tutti, dunque, dalla devozione popolare di allora, la cui perpetuazione divenne una delle cause della indignazione protestante verso certi atti di culto, considerati esasperati e impropri.
In parte eliminati e dispersi, sopravvissero soltanto i materiali preziosi dei loro contenitori (pissidi, bacheche, urne, bare) che erano d’oro o d’argento, insieme alle decorazioni in pietre preziose, venduti complessivamente dagli eredi del Principe tra il 1545 ed il 1547 a Turgau per ricavarne denaro corrente.
Gli oggetti metallici vennero fusi, e quelli minerali distaccati dalle loro incastonature; e ciascuno di loro raggiunse un separato proprietario o una più banale destinazione di mercificazione monetaria.
Di tutti pero, già probabilmente dallo stesso anno 1525 del decesso di Federico il Saggio, una reliquia sola fu salvata, perché non distruggibile e in quanto desiderata da un personaggio importante: si trattava di un pesante bicchiere di vetro, scolpito in un grosso cristallo di rocca semitrasparente, e variamente intarsiato con motivi di animali felini stilizzati e con disegni geometrici, che apparteneva a Santa Elisabetta, Contessa di Turingia e Principessa di Ungheria (canonizzata nel 1235 dal Pontefice Gregorio IX), e che veniva venerato con tutti gli altri reperti sacri di Wittenberg.

La storia dei cosiddetti Vetri di Edvige
Tuttavia la coppa in questione è una copia (ma ugualmente autentica come pezzo di esecuzione) tarda – quattrocecentesca – dell’originale di questo genere di tazza, che veniva montata in argento e rame. L’esemplare originario chiamato, in tedesco, Hedwigsglas (Vetro di Edvige: poiché inizialmente era di proprietà della zia della santa del culto wittenberghino, a sua volta Duchessa di Slesia e di Polonia, e pure ella santificata successivamente – nel 1297 – dal Papa Clemente IV) risale storicamente all’epoca delle Crociate, e per precisione al periodo della Terza (1189-1192).
Venne portata in Europa, insieme ad una altra sua identica copia, da Bertoldo VI, discendente dalla stirpe istriana dei Conti-Duca di Andechs-Merania, al suo ritorno dalla Palestina (avvenuto nel 1193); ed egli la regalò alla propria figlia Edvige, da cui poi passò alla nipote Elisabetta.
Questo genere di prodotti vetrari sono comunque di tipica fattura medievale, e risalgono alla fase di dominio fatimitide egiziano (X secolo); ma nel caso specifico sono di elaborazione medio-orientale/normanna. Gli esemplari più comuni vengono riconosciuti anche come vetri islamici perché lavorati (da cristalli di rocca e pietre dure) in prevalenza da artefici musulmani attivi in Persia e in Siria, e spesso lavorati per l’esportazione occidentale.
Secondo quanto ha riferito lo storico tedesco Robert Schmidt in un suo specialistico saggio del 1912, “i vetri di Edvige”, separatamente («Una delle tazze è giunta a Cracovia e l’altra a Breslau»), provengono dalla vendita dei beni elisabettiani attuati dai suoi eredi, e uno dei due esemplari viene acquistato dall’Elettore sassone per la propria raccolta di Wittenberg.

Nelle mani di Lutero

Il fatto più sorprendente è che il vetro passò immediatamente in possesso a Lutero che lo utilizzò disinvoltamente come oggetto della propria tavola domestica, facendone un bicchiere da vino in cui mescere la propria bevanda quotidiana.
Questo gesto, che potrebbe apparire blasfemo o irriverente verso una reliquia considerata storicamente sacra, è stato comunque platealmente commesso dal Riformatore di Wittenberg per evidenziarne tutta la – da lui ritenuta – inconsistenza cultuale e, soprattutto, per mostrare pubblicamente la nullità degli effetti cosiddetti miracolosi attribuiti a certi elementi di devozione, e dichiararne con evidenza la falsità e inconsistenza taumaturgica. Perché di questo oggetto sacro esistono due leggendarie credenze, provenienti dal Medioevo, entrambe riguardanti la miracolosità prodigiosa di quella coppa che, secondo alcuni, aveva contenuto gocce di sudore e di sangue di Gesù crocifisso, e per altri soltanto possedeva il potere di trasformare comunque sempre in vino l’acqua versata al proprio interno!
Per la prima diceria, la datazione storica del Bicchiere di Elisabetta, risalente all’Undicesimo secolo dopo Cristo, smentisce categoricamente la possibilità fisica di avere contenuto materiali corporei del messia; e nel secondo caso, l’atto di Lutero servì proprio a sfatare anche quel mito devozionale protratto per cinquecento anni, ed a ricondurre l’antico boccale alla sua realtà contingente di vetro adoperato per un utilizzo quotidiano.
Questo reperto, che si è conservato in tale modo particolare dalla distruzione invece avvenuta per tutti gli altri suoi pezzi analoghi appartenenti alla collezione sacra di Federico, giungendo fino ad oggi intatto (e soltanto mancante dei suoi supporti metallici fusi per la vendita), appartiene adesso al Museo di Coburgo, la città della Baviera dove Lutero si rifugiò nel 1530, restandovi sei mesi per sfuggire alla cattura dopo la scomunica ricevuta con la Dieta di Augusta, sistemandosi nella fortezza del posto. Lì dimenticò, tornando a Wittenberg, il suo bicchiere elisabettiano, che venne tenuto e poi sistemato nel contesto museale del luogo (Collezione di Arte del Fortilizio), dove tuttora si trova come curioso oggetto della vita del Riformatore.

 

Corrado Gavinelli

 

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