4 Novembre 2021
Bassano del Grappa. A Fabrice Hadjadj la 39° edizione del premio di Cultura Cattolica
Il cattolicesimo è come il sole, la pioggia e le forbici del giardiniere. È ciò che permette a ogni cultura di crescere, di purificarsi, di dare fiori più belli e frutti più gustosi
Venerdì 29 ottobre, in quel di Bassano del Grappa, si è tenuta la cerimonia del premio di Cultura Cattolica. Il premiato di questa edizione (la 39esima) è stato Fabrice Hadjadj, filosofo e scrittore francese. Tra i presenti, il professore e già rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi, in veste di moderatore, Elena Pavan, sindaco di Bassano, e don Lorenzo Fazzini, capo ufficio nel Dicastero per la Comunicazione, con funzione di responsabile editoriale della Libreria Editrice Vaticana.
Il premio in questione è curato dalla Scuola di Cultura Cattolica, tra i frutti dell’apostolato di don Didimo Mantiero, sacerdote vicentino a cui si deve in particolare l’associazione Dieci, con la quale si propose di riunire un gruppo di persone per offrire a Dio un giorno della propria settimana per la salvezza della città, ispirandosi all’episodio narrato nella Genesi, nel quale Dio promette di risparmiare Sodoma se vi si troveranno dieci giusti; il Comune dei Giovani (dal 1962), nato con l’obiettivo di rendere i giovani responsabili della loro vita e pronti a inserirsi nel tessuto sociale; la Scuola di Cultura Cattolica (dal 1981) per opera degli adulti usciti dall’esperienza del Comune dei Giovani.
Con il Premio annuale si vuole indicare a credenti e non alcune personalità eminenti che si sono impegnate per la promozione della cultura cattolica. Don Giussani, il fondatore di CL, il card. Ratzigner, lo scrittore Eugenio Corti, l’architetto della Sagrada Familia Etsuro Sotoo, sono solo alcuni degli illustri premiati nelle edizioni precedenti (clicca qui per l’elenco completo).
Tornando all’edizione 2021. Fabrice Hadjadj, maoista e anarchico convertitosi per mezzo della Vergine Maria, nella Chiesa di San Severino, nel centro storico di Parigi (un po’ come successe a Roma ad Alfonso Ratisbonne, anch’egli ebreo); ha ricevuto il battesimo all’abbazia di Solesmes, di cui fu priore generale Prosper Guéranger, il grande restauratore dell’ordine benedettino e della liturgica cattolica in Francia. Padre di nove figli, insegna filosofia e letteratura a Tolone, oltre ad essere Direttore di Philanthropos, istituto europeo di studi antropologici a Friburgo (Svizzera). È autore di numerosi libri, tra i quali spiccano “Mistica della carne. La profondità dei sessi”; “Che cos’è la verità; Il Paradiso alla porta”; “Ma che cos’è una famiglia?”; “Risurrezione. Istruzioni per l’uso”; “Ultime notizie dall’uomo e dalla donna. Cronache di una fine annunciata”.
Il discorso di Hadjadj in occasione della premiazione è stato paradossale.
Quanto di più inedito ci si possa aspettare da parte di un’intellettuale ad una cerimonia del genere. Non fosse stato per il tono educato e gentile e per i tempi comici dell’arguta ironia, avremmo sicuramente recepito in modo incompleto le sue parole ai limiti della scortesia. Lo scrittore, infatti, per prima cosa ha dichiarato quanto in realtà essere premiato fosse per lui un onore, ma soprattutto un onere: arrivando a paragonare se stesso al toro da monta che viene premiato prima di essere destinato al macello. Perché questa metafora? «Voi mi assegnate questo premio e in cambio avete su di me una pretesa. Mi mettete tra i primi, ma, quasi a tradimento, in verità ironicamente, secondo la grande ironia di Cristo, voi proclamate che devo essere il vostro schiavo. Voi lodate le mie opere, ma reclamate la mia vita». Richiamando l’episodio dei figli di Zebedeo, i quali desideravano occupare i primi posti, l’autore ha ricordato ciò che Gesù disse loro, ossia che la condizione per accedervi è bere il “Calice” che lui stesso ha bevuto. Fabrice Hadjadj ha quindi chiesto di essere aiutato a superare la prova della fedeltà che esige il fatto stesso di essere premiato. «Sono qui sotto la luce, si parla del mio “contributo alla cultura cattolica”, ma il mio vero contributo può avvenire solo quando sarò nelle tenebre, da solo con Dio. Non a Bassano del Grappa, ma sul Monte degli Ulivi. Non al calice del cocktail, ma al calice dell’agonia. E non dico questo senza trepidare, per semplice gusto della provocazione. Lo dico tremando, per amore della verità».
Ma ancora più sorprendente, è il fatto che egli abbia messo in discussione lo stesso nome del premio: “di cultura cattolica”; spiegando che non poteva accettarlo a meno che non avesse sciolto l’equivoco sotteso ad un nome del genere. Hadjadj, infatti, ha addirittura posto l’interrogativo sul fatto che davvero esista la cultura cattolica. «Per quanto riguarda la “cultura cattolica” ecco la mia perplessità. Pensare che tale cultura esista significherebbe metterla in concorrenza con le altre culture, e credere per esempio che la cultura cattolica debba trionfare sulla cultura non cattolica, che la Bibbia debba soppiantare gli altri libri. L’idea di una cultura cattolica corre quindi il rischio di essere in combutta con il fondamentalismo. Incita a funzionare a circuito chiuso, a ex-culturarsi, a ignorare le opere del proprio tempo che non abbiano il timbro di una croce ridotta a etichetta».
Questione che il filosofo ha poi risolto, quasi ricordando la democrazia dei morti e degli avi con cui i vivi devono continuare a confrontarsi, di cui parlavano Giovannino Guareschi in Diario Clandestino e Chesterton in Ortodossia. «Il cattolicesimo non è una cultura rivale, perché non si colloca sullo stesso piano delle culture. Se si possono paragonare le culture a specie vegetali, la Rivelazione cristiana non è una specie più viva e più bella, che dovrebbe sostituire le altre, come un’erba meravigliosa più virulenta dell’erbaccia. È più come il sole, la pioggia e le forbici del giardiniere. È ciò che permette a ogni cultura di crescere, di purificarsi, di dare fiori più belli e frutti più gustosi. […] Diventando cristiano, divento contemporaneo di Mosè, Paolo, Agostino, Tommaso d’Aquino, Dante, Manzoni, ma anche di Sofocle, Aristotele, Virgilio che preparano al Vangelo. So che, sostanzialmente, le domande che pongono Shakespeare o Goldoni valgono ancora per me. Anzi, credo che Nietzsche e Marx avranno posterità solo nella Chiesa, perché il cattolico si interesserà ancora ai loro scritti, quando i seguaci degli algoritmi, dell’animalismo o del fondamentalismo li avranno da tempo abbandonati. La stessa cultura atea non potrà radicarsi se non là dove ancora si celebra la carne e la parola, la verità che germoglia dalla terra e la giustizia che discende dal cielo (Sal 84,12)». Per poi arrivare a concludere in questo modo: «Non so se ho contribuito a una cultura cattolica, ma se ho partecipato a un cattolicesimo che riconosce la sua missione di salvezza per la cultura oggi, allora il premio che ricevo non è fondato su un malinteso. Sempre più, in futuro, bisognerà rispondere all’Ascolta Israele, per ascoltare ancora Mozart o leggere La Ricerca del Tempo perduto […]».
Con questo discorso così intriso di paradosso, di filosofia, di teologia, Fabrice Hadjadj ci consente di comprendere come la rivelazione cristiana e la visione antropologica che ne scaturisce intreccino profondamente l’essere generativi, la fertilità e il totale dono di sé, fino alla morte, che però non è mai la destinazione finale, ma un passaggio per generare ulteriormente nuova vita. Un messaggio così ricorrente nelle sue parole che prima di salutare definitivamente il teatro, l’autore ha voluto sintetizzarlo lasciandoci l’immagine del melograno. Frutto utilizzato anche durante le festività ebraiche, simbolo della fertilità, di cui si consumano solo i semi di colore rosso e brillante, che ricordano quello del sangue e che ben si presta come metafora di ciò che asseriva Tertulliano: «Più ci mietete, più numerosi diventiamo: il sangue dei Cristiani è semenza» (Apol. 50,13).
Daniele Barale e Valentina D’Antona
presidente e segretaria
dell’associazione Samizdat online
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