03 marzo 2015
In un’intervista “probabile” il ricordo del grande registra teatrale
Forse dai tempi de “Gli ultimi giorni dell’umanità”, forse prima: con Luca si era stabilita una forte amicizia. Sarei tentato di raccontare mille episodi legati al nostro sodalizio, ma sia lo spazio tiranno, sia perché lo farò in altra sede, preferisco “intervistarlo”: post mortem? No: riportando brani molto attuali di una delle molte lezioni che fece nel mio Corso alla Facoltà di Architettura di Torino. Affido “l’intervista” alle domande che fecero – come sempre dopo le lezioni – gli studenti. Solo una cosa: tutti sono concordi della grande influenza che ebbe nella “crescita registica” del Teatro. Eredi? No perché non si può mai parlare di “eredi”, ma vi sono ottimi registi che sicuramente si sono abbeverati alla sua fonte: ne cito solo uno: Daniele Michieletto che ben conosco e che ho proposto di portare al Sociale di Pinerolo nella presente stagione con “L’ispettore generale” di Gogol; intelligentissimo innovatore richiesto in tutta Europa. Questo ostracismo rivela una sottovalutazione della sensibilità del pubblico pinerolese. Dico questo perché qui Ronconi parla della “consapevolezza” del pubblico; e, dico io, solo portando spettacoli che lo stimolino si può ottenere qualche risultato.
Ma ora veniamo all’intervista.
In qualche modo è la società a determinare le forme teatrali?
Certo, noi siamo sempre abituati a parlare di drammaturgia come se fosse un fatto letterario, oppure un insieme di fatti tra letterario e figurativo. In realtà la drammaturgia è come un patto fra delle persone che fanno teatro e quello che chiamiamo pubblico; una serie, come dire, di convenzioni, di accordi, che permettono la lettura di qualche cosa.
Rispetto agli anni Settanta, come ci si potrebbe allora approcciare al pubblico di oggi?
Il pubblico degli anni Settanta o degli anni Ottanta è una generalizzazione, esattamente come il pubblico degli anni 1720 o 1730. Anzitutto, secondo me, è un errore pensare al pubblico in generale. Non esiste un pubblico, esiste un gran numero di porzioni di pubblico. È una facilitazione che noi ci poniamo, dire: dobbiamo arrivare al pubblico. Ci si può rivolgere a dei particolari settori di pubblico. C’è un tipo di teatro che interessa un certo pubblico, un altro tipo di teatro che interessa un altro pubblico. Bisogna anche che gli spettatori, che assistono a un certo tipo di spettacolo, costituiscano realmente un pubblico. Perché poi, molto spesso, non sono un pubblico. Molto spesso è l’atteggiamento con cui ci si pone di fronte a un fatto teatrale, che rende anche un po’ improprio il termine pubblico. Per esempio, secondo me, il dire “mi piace” o “non mi piace” non è un atteggiamento da pubblico. È un atteggiamento di gusto che non riflette, per esempio, l’orientamento di chi ti sta vicino. Non lo so cosa si possa fare per approcciare il pubblico dei nostri anni. In realtà devo anche dire che il pubblico dei nostri anni è un pubblico molto più vasto di quello di quaranta o di cinquanta anni fa, se si tratta di un rapporto numerico. Se si tratta di un rapporto, invece, di consapevolezza, il pubblico di oggi è meno consapevole. È come se ci fosse un pubblico di avvenimenti sportivi che non conosce le regole di un avvenimento sportivo. E quindi indubbiamente partecipa in maniera meno appassionata alla cosa che si sta svolgendo sul palcoscenico.
La traduzione “dal testo allo spazio” avviene attraverso: delle regole fisse e poi c’è un’intuizione felice o invece parte, proprio, da un’intuizione?
Non credo esistano delle regole. Credo che anzitutto ci siano dei registi e degli scenografi che hanno un senso dello spazio forte e dei registi e degli scenografi che sono totalmente indifferenti a questo problema.
Per me, per esempio, come ho già detto, lo spazio è qualcosa che ha un forte significato. È un mezzo molto forte, come dico: ogni testo ha un suo spazio ideale, ma non credo che esistano delle regole. Per esempio, nell’elaborazione dello spettacolo lo spazio può avere un valore simbolico. Si può fare una scenografia che abbia un riferimento simbolico con dei valori del testo. lo non sono portato a fare questo tipo di lavoro.
Per me lo spazio è sempre legato alla mobilità dell’attore o, per lo meno, alla mobilità di qualche cosa. E quindi esiste, per esempio (è un mio modo di procedere), uno spazio che è il perimetro del palcoscenico, e già questo determina dei movimenti dei personaggi. In questa stanza si è portati a muoversi secondo certe linee generatrici e non secondo certe altre, ovviamente. Poi c’è un uso dello spazio che si riferisce agli oggetti d’uso all’interno di uno spazio. Per esempio, in questa stanza, questo tavolo con il televisore, queste sedie ecc. Anche queste sono un sistema di movimento a cui gli attori devono fare riferimento. Lo spazio scenico è determinante per quelli che sono poi i movimenti più importanti, quelli intersoggettivi dei personaggi, degli attori. E anche quelli sono molto spesso vincolati, condizionati dallo spazio generale. Però non penso esistano delle regole.
Poi esistono delle possibilità, dei modi di far teatro, in cui la scena ti racconta lo spettacolo. Ripeto: quello non è molto il mio modo. Una scena che racconta lo spettacolo tende a essere un qualcosa di fisso. Rischia di raccontartelo troppo presto, o rischia di raccontartelo troppo tardi, o ancora rischia di raccontartelo nel momento sbagliato, perché, molto spesso, un racconto è qualche cosa che si svolge nel tempo e, spesso, un tipo di scenografia simbolica a cui molti scenografi e registi ci abituano, annulla l’elemento tempo, la temporalità di una rappresentazione teatrale. Per cui è necessario che le cose vengano alla percezione dello spettatore secondo un certo ordine o, comunque, con una temporalità particolare. Sono portato spesso, nell’uso dello spazio scenico, questo si sa, a fare uso di uno spazio modificabile.
Il motivo per cui il mio spazio ideale è uno spazio che si modifica continuamente, ritengo che sia derivato dall’uso del film. Ossia dall’essere abituati ad un’immagine in cui, come è possibile al cinema e come non è possibile a teatro, tutto ciò che non è funzionale a quel momento particolare dello spettacolo può essere eliminato. La rappresentazione cinematografica ha questo vantaggio enorme: che può sgombrare il campo da quello che non serve in quel determinato momento. La scenografia teatrale, viceversa, deve fare i conti con uno spazio fisso, con uno spazio da cui è molto più difficile eliminare quello che non è funzionale a quel determinato momento o a quel determinato tempo. Da qui deriva la mia predilezione per degli spazi indeterminati, dove anche gli elementi di architettura possono ruzzolare, cascare, sparire, ossia uscire dalla vista degli spettatori, nel momento in cui non hanno più un significato preciso in rapporto all’azione, che si sta svolgendo in quel determinato momento.
Predilige dei colori forti oppure dei colori tenui?
Una predilezione non credo. Nel senso se si predilige il giallo o il blu? No. Per abitudine non parto mai da un’idea figurativa. Mai. Il primo passo di lavoro con lo scenografo è sempre una pianta e mai un bozzetto. Infatti non lavoro sui bozzetti. Per me sono molto poco importanti. Lavoro sulle piante, su una specie di necessità di rapporti di movimento tra gli attori o tra i personaggi e, come ho detto, in un rapporto di distanza dal pubblico.
Sergio Santiano