31 Dicembre 2024
La relazione “dei numeri primi”: che il nuovo anno non sia relativo
Tutti gli anni, alla fine di dicembre, cerco di raccogliere le idee sull’anno passato e immagino cosa potrebbe accadere nel nuovo.
Corriamo sempre e non solo da un posto a un altro. Corriamo da un appuntamento a un altro così come da una lezione a quella successiva; saltiamo dentro a un libro per uscire da quello successivo, partiamo per organizzare il pranzo e ci ritroviamo a preparare la cena. Tiriamo un sospiro, con gioia o con tormento, solo quando, avvolti dal caldo abbraccio della coperta, chiudiamo gli occhi, cercando di prendere sonno e questo avviene solo quando da ore il tramonto, addormentato, siede all’orizzonte, contemplando la luna, perché le nostre vite sono così tanto affollate di cose da fare che ci dimentichiamo di respirare. Il tempo sembra fluirci tra le mani come il fiume che, scivolando nel suo letto, non è mai lo stesso e mai lo sarà, legandoci a sé come fosse un eterno battito ripetuto incessantemente. Soffocante, a volte.
Ecco perché, di tanto in tanto, cerco di fermarmi, ricreando attorno a me il deserto. Metto le cuffie, faccio partire la playlist che, variata negli anni, mi ha sempre immersa completamente nella scrittura, apro il pc, guardo fuori, penso a un argomento e poi lascio che le note guidino le mie dita in una specie di flusso di coscienza. È il regalo natalizio che faccio al mio inconscio: gli dono un po’ di tempo nel quale poter svuotare il sacco. È il tempo nel quale lascio che siano quelle immagini primordiali a parlarmi, permetto loro di trascrivere sul monitor del mio subconscio ciò che durante l’anno passato hanno instillato in modo subliminale dentro di me, influenzando i miei pensieri e facendo germogliare in me bisogni, desideri e sogni.
Per un gruppo di lettura, ho iniziato a leggere “Norwegian Wood” di Murakami e mi sono imbattuta nel suicidio inspiegabile e senza spiegazioni di Kizuki, l’unico amico del protagonista, Toru, e ho ripensato a Jude (“Una vita come tante”, Hanya Yanagihara) e alla sua vita che è quasi una sineddoche di molte altre anonime vite che, un passo dopo l’altro, hanno smesso di sperare, non solo di amare, di ridere o quant’altro: hanno proprio smesso di sperare. E ciò è terribile. La speranza non è solo qualcosa di letterario, qualcosa che “spacca” se viene rappresentata sul grande schermo o snocciolata in modo geniale in qualche storia da best seller. La speranza è quel Sé che integra e tiene unito ciò che eravamo e ciò che saremo. Se la speranza svanisce, il nostro Sé si disintegra, si divide, si lascia travolgere e seppellire da ciò che, come Ombra, ha travolto e stravolto la nostra vita, permettendo a ciò che reputiamo distruttivo di distruggerci, goccia dopo goccia. Perché con gli altri spesso siamo diabolicamente cattivi, ma con noi stessi facciamo di peggio. Per noi stessi, siamo la peggior tortura o la più grande fortuna. E tutto dipende unicamente dalla speranza che nutriamo verso il domani, sapendo che ieri si è compiuto in modo completo e senza alcuna capacità trasformativa, che ci piaccia o meno. La speranza aiuta a credere che, nonostante tutto, noi siamo e saremo il cambiamento che vogliamo portare nella nostra vita e in quella degli altri. Mi hanno sempre incuriosito i numeri relativi. Come fanno i numeri a “essere relativi”? E relativi rispetto a che cosa? Mi incuriosiva ancora di più la lettera Z che li rappresenta e deve far sì che siano identificati da tutti, a prescindere da una qualsivoglia differenza culturale o sociale. Com’era possibile che l’ultima delle lettere dell’alfabeto rappresentasse un così importante gruppo di numeri? E poi, ho capito. O almeno, ci ho riflettuto e sono arrivata a una conclusione. Tutto ciò che inizia ha una fine, ma la fine non dipende né dall’inizio né dalla successione di numeri che la costituiscono. La fine dipende solo rispetto a chi – o a che cosa – ci siamo relazionati. E ciò fa sì che tutta la nostra vita sia condizionata da un segno o da un altro. E ogni numero della successione che compone la vita dal suo inizio alla sua fine, “dalla A alla Z” per così dire, ha un suo valore relativo rispetto al soggetto da cui facciamo dipendere il nostro segno, ma ha anche un valore assoluto, imprescindibile, ed è per questo valore che agisce la speranza: perché il “modulo” dal quale siamo abbracciati ci mostra quale sia il nostro valore assoluto e questo “modulo” è l’amore di Dio che è talmente grande da prenderci così come siamo, con il nostro segno e, se glielo permettiamo, da trasformarci sempre in qualcosa di positivo, di bello, di nuovo, di puro, di lucente e gustoso, così da essere “luce e sale della terra”.
“I know it hurts, it’s hard to breathe sometimes” e che “these nights are long” ma not “you’ve lost the will to fight” (“Carry you”, Ruelle ft.Fleurie). Mai. Perché c’è sempre qualcuno che “carry you” là dove tu non riesci ad andare, perché le tue forze ti abbandonano e la tua mente ti dice che “non ne sei capace e non lo sarai mai”. E proprio là, dove tutto è finito, là dove tutto è distrutto, ti aiuterà a ricostruire, a “fare nuove tutte le cose” (Ap 21,5).
Perché ogni fine, non è mai una fine definitiva, assoluta, forse lo è a livello ontologico, ma non è mai immutabile. Ogni fine porta con sé il germoglio di un nuovo inizio; come le sabbie mobili si avviluppano alla caviglia del pellegrino e lo risucchiano poco per volta, così ogni notte attira magneticamente il nuovo giorno in un continuum circolare, basta saper “distinguere i segni” (Mt 16,3). E aspettare. L’attesa è la primogenita della speranza: chi spera genera pazienza e attesa e chi attende lo fa solo perché dentro di sé è sospinto dal soffio vitale, dal ruah, più grande che esista al mondo, la speranza, che, giorno dopo giorno, con cura instancabile, gli ha donato la vita.
Che ci sia tanta attesa per tutti in questo nuovo anno che nasce e lo fa per coloro che sperano, ma soprattutto per coloro che si trovano nella notte.
Erica Gavazzi
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