29 Aprile 2011
Quale futuro per la chiesa piemontese?
Intervista a Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino e presidente della CEP La riscoperta di Gesù, l’educazione dei giovani, il dialogo ecumenico e la collaborazione tra le diocesi gli elementi irrinunciabili per costruire le comunità di domani.
Quasi timido. Con la gravità di chi ha servito e continua a servire i fratelli, monsignor Cesare Nosiglia si presenta con grande semplicità, senza ombra di trionfalismi. Da poco più di cinque mesi è il nuovo arcivescovo di Torino (non cardinale, almeno per il momento). Su invito del vescovo Pier Giorgio Debernardi, martedì 5 aprile è arrivato a Pinerolo per presentare i nuovi orientamenti della Chiesa Italia per il prossimo decennio: “Educare alla vita buona del Vangelo”. Tra una cena veloce in Vescovado e l’incontro programmato in Cattedrale, ha trovato il tempo per un’intervista a tutto campo.
Arrivando in Piemonte da Vicenza quale chiesa ha trovato?
Ho trovato una chiesa molto vivace, molto dinamica e aperta alla novità ma anche un po’ preoccupata dalla situazione che si trova ad affrontare, soprattutto sul piano educativo nei confronti dei giovani. La gente sembra sempre meno vicina agli orientamenti offerti dalla chiesa. Sembra distratta, indifferente. Vengono chiesti i sacramenti nel solco di una religiosità di tradizione ma sul piano della fede si stenta ad avere un’adesione. I sacerdoti e le realtà più avvedute dal punto di vista culturale e associativo, come pure i movimenti, si rendono conto di quanto sia difficile incidere sulla vita. I vescovi ci hanno consegnato un documento che dice di “educare alla vita buona del Vangelo” perché è proprio su questo che occorre insistere.
A chi spetta questo compito?
Principalmente a coloro che hanno una relazione di formazione verso le nuove generazioni. Devono mettersi in discussione per ritrovare motivazioni di fondo sul loro essere e sul loro agire. Devono trovare la forza e il coraggio di contrastare una realtà culturale e massmediale attraverso un contropotere positivo per trovare, all’interno della cultura di oggi, quei varchi che appellano alla dimensione spirituale. L’uomo ha dentro di sé un’esigenza di senso, di futuro, di speranza e di bellezza. Quindi occorre avere fiducia nell’azione evangelizzatrice puntando molto sulla testimonianza. E poi sulla edificazione di comunità educanti che esprimano nella loro vita una verità che si fa amore, con una chiara identità cristiana che nasce dall’incontro con Gesù Cristo. Anche incontrando i giovani ho notato come la persona di Cristo resta sempre un po’ ai margini, data un po’ per scontata e si dà più attenzione alle tematiche di ordine antropologico, sociale e culturale. Tutti elementi importanti ma se non sono ancorati a Gesù Cristo la fede diventa un’azione umana che non incide profondamente nella vita delle persone.
È forse questa la radice della crisi di vocazioni che in Piemonte si fa sentire in modo così evidente?
La crisi vocazionale non riguarda solo l’essere preti o suore ma anche il matrimonio. Oggi è in crisi vocazionale la vita stessa che viene accettata e spremuta solo per aspetti molto secondari rispetto invece ad una fondatezza di significato e di futuro. Da quando sono a Torino sento spesso parlare dei santi sociali. Allora io dico: erano sociali perché erano santi! Il discorso deve essere riportato alle fonti della nostra fede, all’essenzialità del dato di fede che è l’incontro con la persona di Gesù Cristo. Credo che i libri del Papa che sono usciti, siano un grande stimolo per tornare alle sorgenti primarie della nostra fede: l’incontro con il Signore, la riscoperta del vangelo come fonte privilegiata, storica e concreta di una persona che non è solo uomo, ma è figlio di Dio. Gesù è la figura di riferimento da cui ripartire per ricostruire la propria umanità e una collettività di persone che sanno poi incidere anche nel sociale, nell’economico, nel politico, nella vita di tutti i giorni. Certamente dalla fede nasce un rinnovamento che investe tutta la vita, non solo quella personale, ma anche quella famigliare e sociale.
Don Bosco, il Cottolengo e il Murialdo sono stati coltivatori di vocazioni, a partire da una solida vita di preghiera.
Esatto. La loro è stata una vocazione che, appunto, si traduceva poi in una scelta di vita dedicata al Signore e agli altri, senza paura delle conseguenze. Oggi si vuole tutto preordinato, in qualche modo già deciso. È quindi difficile abbandonarsi a questa vocazione che dovrebbe spingerti a fidarti di Dio. Così prevale il “mordi e fuggi” che porta a chiudersi dentro esperienze che possono anche essere belle, ma destinate a svanire entro un paio di giorni. C’è una sorta di mobilità della persona che si trova sempre come sulle sabbie mobili: non ha stabilità nel suo essere, nel suo pensare, nel suo agire. Oggi tutto porta alla provvisorietà: il lavoro, la scuola, le amicizie…
Questo crea una situazione di grande difficoltà, perché l’uomo è fatto per la stabilità, è fatto per fondarsi sulla roccia.
Nel documento “Educare alla vita buona del Vangelo”, i vescovi dicono quanto è importante che l’educazione parta da una relazione sincera, autentica, che si fa accompagnamento, che sa perdere tempo, che sa “gustare” il senso di un dialogo che non è solo superficiale. Bisogna comunicare se stessi nell’educazione, non si può comunicare solo delle cose da sapere, o da fare. Questo esige tempo, un coinvolgimento di testimonianza che, a volte, gli adulti in particolare, non hanno possibilità di offrire alle nuove generazioni. I giovani sono riempiti di emotività affettive che li lasciano estranei e non li fanno neanche crescere in una responsabilità di persone libere. Occorre proporre un progetto che vada oltre la giornata, che imposti la vita per il futuro. Qui nasce la vocazione.
La diocesi di Pinerolo, per la vicinanza dei i fratelli valdesi, è stata pioniera nei rapporti ecumenici. L’ecumenismo e il dialogo interreligioso che ruolo giocheranno nei prossimi anni in Piemonte?
Un ruolo importante. Soprattutto sul piano ecumenico dovremo trovare delle vie, delle strade di incontro e di impegno comune per far fronte al dilagare di sette e movimenti religiosi che stanno invadendo la coscienza, la cultura e anche la mentalità del nostro occidente. Queste realtà spesso riducono la fede a una sorta di “fai da te”, rifiutando ogni rapporto con la tradizione. È molto difficile dialogare con questi movimenti. Sulla frontiera di questa nuova sfida, le chiese cristiane possono trovare una maggiore unità. Anziché continuare a considerare solo i rapporti reciproci, è necessario valutare anche quali rapporti avere con questo nuovo mondo religioso. C’è poi il discorso del dialogo con le altre religioni: il dialogo con l’islam comporterà indubbiamente un impegno ecumenico tra le chiese. Questo dialogo è già in atto e, in un certo modo, si sta anche evolvendo con serenità. Però è fondamentale non essere ingenui, né sospettosi: occorre trovare un equilibrio. Un conto è dialogare con i movimenti che sono ispirati al cristianesimo, un altro è dialogare con altre religioni che credono in un dio diverso. La fede cristiana, in questo momento storico, è debole nel cuore, nella cultura e nella mentalità. È quindi esposta ad una conquista non appariscente, ma di fatto possibile. La vicinanza con questi fratelli che fanno parte dell’umanità, che sono religiosi, ci deve stimolare a riscoprire le motivazioni di fondo della nostra fede. Non per paura o per timore, ma per far sì che il dialogo risulti poi efficace, potendosi basare anche su aspetti comuni, come la difesa dell’uomo e la fede in Dio.
Occorre quindi fermarsi sulla soglia del dialogo?
Non escludo l’evangelizzazione e l’offerta della proposta cristiana a questi nostri fratelli. Quest’anno, per esempio, a Torino abbiamo ottanta battesimi di adulti. Di questi ottanta almeno 60 vengono da altre religioni. Il comando di Cristo: “Andate e annunciate il Vangelo a tutte le genti” non vale solo per i missionari. Le genti le abbiamo qui con noi. Quindi anche nei loro confronti occorre la testimonianza e la proposta che si fa con la vita, attraverso il dialogo e l’incontro. Senza escludere nessuno. Neanche coloro che professano altre religioni.
Sono anni che in Piemonte si discute sulla possibilità di ridisegnare i confini delle diocesi. Che cosa ci possiamo aspettare in tal senso?
Certamente la collaborazione è necessaria. Dobbiamo collegarci di più, riuscire a trovare vie di maggior convergenza sul piano dell’evangelizzazione e dell’educazione. Mi sembra che la CEP stia lavorando molto bene sotto questo profilo. Ma non credo sia pensabile un accorpamento tra le diocesi, perché ogni diocesi ha una ricchezza di tradizione, di valori, di religiosità, che la caratterizza. Certamente certe diocesi piccole possono soffrire di mancanza di possibilità, di risorse. Un vescovo che guida due diocesi non rappresenta di certo un problema. L’importante è che ogni diocesi mantenga la propria identità. Gli accorpamenti sono già complicati tra parrocchie vicine, tra le diocesi sarebbe ancora più difficile. È invece importante insistere nel dare forza e vigore ad un cammino comune per impostare una risposta condivisa su alcune problematiche che si pongono a livello regionale.
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