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Chiesa  

50 anni fa la "Pacem in terris"

50 anni fa la

AGD – La «Pacem in terris» è il testamento spirituale e morale di un grande Papa del XX secolo: cinquant’anni fa il Beato Giovanni XXIII la firma il 9 aprile e la promulga l’11 aprile 1963 (Giovedì Santo). Fu accolta, anche dal mondo comunista, con grande attenzione e vivo apprezzamento come un messaggio che esprime ideali nuovi, strategie innovative, concetti mai espressi, parole mai scritte, e lo fa con un linguaggio fresco e originale e con uno stile argomentativo. Un appello che il vecchio e malato Papa consegnava all’umanità: morirà il 3 giugno e il 21 giugno sarà eletto Paolo VI.
Le reazioni furono molto favorevoli perché quelli erano anni di paura, di terrore, di «Guerra fredda». Nella notte del 13 agosto 1961 le truppe sovietiche costruiscono il Muro di Berlino che spacca la città in due: i tedesco-orientali fuggono all’Ovest verso la libertà. In un clima di sospetto e di diffidenza quel Muro attraversò il cuore dell’umanità e penetrò nelle menti creando divisioni che sembravano destinate a durare per sempre: invece il Muro sarà smantellato 28 anni dopo, il 9 novembre 1989.
Il 98enne arcivescovo Loris Francesco Capovilla, che fu segretario di Papa Giovanni, fa risalire l’idea dell’enciclica ai drammatici giorni di fine ottobre 1962 quando il mondo fu sull’orlo dell’olocausto nucleare per la crisi dei missili sovietici a Cuba.
L’enciclica identifica le condizioni essenziali per la pace in quattro precise esigenze dell’animo umano: verità, giustizia, amore, libertà. La novità più vistosa è lo stile che argomenta sulla base della ragione e non solo della Rivelazione, particolare sottolineato dal Papa nel discorso della firma: «Sulla fronte dell’enciclica batte la luce della di­vina rivelazione che dà la sostanza viva del pensiero. Ma le linee dottrinali scaturiscono altresì da esigenze intime della natura umana e rientrano per lo più nella sfera del dirit­to naturale. Ciò spiega un’innova­zione di questo documento: è indirizzato non solo all’episcopato, al clero e ai fedeli di tutto il mondo, ma anche «a tutti gli uomini di buona volontà».
L’apertura e il respiro universale so­no la nota costante del Papa bergamasco e conferiscono al suo pontificato un presti­gio che proprio al suo tramonto rag­giunge il culmine. L’enciclica ridonda proprio del contenuto e dello stile giovanneo: fiducia nel­l’uomo, approccio po­sitivo alle trasformazioni storiche, comprensione per i travagli dell’umanità. Sottoli­nea i vincoli di unità tra gli uomi­ni – la dignità della persona e il bene della pace – i quali sollecitano il superamento delle di­visioni per instaurare rap­porti fraterni. Accrescono il fascino del documento autentici colpi d’ala che aprono nuo­ve prospettive, offrono motivi di speranza, provocano forte impressione nell’opinione pubblica.
L’enciclica è articolata in cinque parti: «Rapporti dell’uomo con l’uomo; Rapporti degli uomini con i poteri pubblici; Rapporti delle comunità politiche tra loro; Rapporti degli uomini e delle comunità politiche con la comunità mondiale; Norme pasto­rali di immediata percezione». Alla base di tutto c’è la per­sona, soggetto di diritti e di doveri «universali, inviolabili, ina­lienabili». Tra essi, per la prima volta in un documento pontificio, c’è il riconoscimento dei diritti della retta coscienza e del­la libertà religiosa. Diritti e doveri sono indissolubilmente legati perché «ogni diritto naturale in una perso­na comporta un rispettivo dovere in tutte le altre persone».
Benché appena abbozzata, appare per la pri­ma volta l’espressione «segni dei tempi», destinata ad avere molta fortuna. Come segni dei tempi cita tre fenomeni: la promo­zione economico-sociale delle clas­si lavoratrici; l’ingresso della donna nella vita pubblica con la richiesta di essere considerata sempre come persona; il superamento del colonialismo, delle discrimina­zioni razziali, dei complessi di inferiorità di un popolo verso un al­tro: decine di Paesi rompevano il giogo del colonialismo e si rendevano indipendenti. In America, in Africa e Asia i popoli oppressi dal razzismo invocavano la fine della discriminazione.
Alla base della pace c’è il disarmo perché la pace non può fondarsi sull’equilibrio del terrore: «Venga arrestata la corsa agli armamenti; si riducano simultaneamente e reci­procamente gli armamenti esisten­ti; si mettano al bando le armi nu­cleari; si pervenga al disarmo integrato da controlli efficaci». Infine sollecita la cooperazione anche con i lontani e con i non credenti in base alla fondamentale distinzione giovannea tra errore ed er­rante, che è da rispettare perché conserva sempre la dignità umana.

Pier Giuseppe Accornero

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