21 Luglio 2014
Non possiamo smettere di pregare per la pace
Luglio 2014
Il recente viaggio di Papa Francesco in Giordania, in Palestina e in Israele (24-26 maggio) e l’incontro in Vaticano l’8 giugno dei presidenti Shimon Peres e Abu Mazen per pregare insieme per la pace, continuano ad essere – nonostante le difficoltà del momento presente – segni di grande speranza.
Soprattutto i gesti, quello di piantare un ulivo e quello di alzare le mani imploranti al cielo, rivelavano una volontà sincera non solo di invocare dall’Alto la pace ma anche di lavorare alacremente per realizzarla in un contesto politico difficile e minato.
Anche la sosta che Papa Francesco ha fatto davanti al muro (della vergogna!) che divide la zona israeliana da quella palestinese (Israeli West Bank barrier, lunga 730 km e formata da pannelli in cemento armato) è stato un gesto che invocava riconciliazione, soprattutto nella città che custodisce la “mangiatoia” dove è nato Gesù, Principe della pace.
Questi incontri, questi gesti, sarebbero avvenuti invano? È questa la domanda che si pone Papa Francesco. “No”. Risponde. Perché «la preghiera ci aiuta a non lasciarci vincere dal male né rassegnarci a che la violenza e l’odio prendano il sopravvento sul dialogo e la riconciliazione».
Il credente, a qualsiasi religione appartenga, sa per esperienza che pregare è parlare con Dio, è manifestare a lui che abbiamo bisogno del suo aiuto. Papa Francesco, nell’incontro in vaticano l’8 giugno ha detto: «Non rinunciamo alle nostre responsabilità, ma invochiamo Dio come atto di suprema responsabilità, di fronte alle nostre coscienze e di fronte ai nostri popoli. Abbiamo sentito una chiamata, e dobbiamo rispondere: la chiamata a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: “fratello”. Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre».
Lavorare per la pace e invocare questo dono ci impegna anche a denunciare l’aumento delle spese militari e l’investimento che tante Nazioni fanno nell’acquisto di armi. Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 si è trovato una giustificazione in più per aumentare le spese militari. Il recente rapporto del “Sipri” (L’Istituto Internazionale di ricerche per la pace di Stoccolma) aiuta a capire come nel periodo 2003-2013 le spese militari, a livello globale, sono aumentate del 50% (Cina, Russia, Stati Uniti e India sono i capofila di questi ingenti investimenti). Il mondo è più armato di dieci anni fa. Anzi, c’è una nuova, pesante tendenza al riarmo. Il medio Oriente, l’Africa del Nord e quella Centrale, tutti Paesi logorati da anni di guerra, hanno moltiplicato considerevolmente le spese militari facendo retrocedere un’economia che garantisca i beni indispensabili quali il cibo, la scuola e l’assistenza sanitaria.
Sempre il “Sipri” denuncia che nel 2013 sono stati spesi 1.747 miliardi di dollari per le armi. È pazzia, perché tutto a danno dei Paesi più poveri!
Anche l’endemica instabilità politica del Medio Oriente è sorretta da un continuo afflusso di armi. Quando si temeva una deriva di guerra in Siria – settembre 2013 –, Papa Francesco gridò: «Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese, specialmente tra la popolazione civile e inerme! Pensiamo: quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro! Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche! Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorno scorsi! C’è un giudizio della storia sulle nostra azioni a cui non si può sfuggire! Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!»
Mentre la diplomazia è al lavoro per un pronto “cessate il fuoco” tra Israeliani e Palestinesi, invito tutte le comunità a pregare per la pace, a credere alla forza della preghiera capace di cambiare le situazioni umanamente impossibili.
+ Pier Giorgio Debernardi
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