Queste parole del compianto Luciano De Crescenzo, sintetizzano in una battuta il cuore della nuova lettera pastorale che accompagnerà la diocesi di Pinerolo per i prossimi 12 mesi. Per andare oltre la battuta e capire quali siano i contenuti più importanti del testo, abbiamo incontrato il vescovo Derio.
“Vuoi un caffè?” è un titolo insolito per una lettera pastorale. Che cosa c’è dietro il caffè?
In continuità con quella dello scorso anno – “Lo stupore della tavola” – l’intento della lettera pastorale è quello di aiutarci a riflettere sulla concretezza quotidiana. L’anno scorso il punto di partenza era un pagnotta e la tavola il discorso di fondo. Quest’anno il punto di partenza è la domanda «Vuoi un caffè?» e tutto il tono della lettera è sulle relazioni che sono pane quotidiano. Dietro questa domanda ci sono tutti gli elementi di una relazione perché se io dico a te «vuoi un caffè?» vuol dire che ti stimo perché altrimenti non mi fermerei ad offrirti un caffè. Vuol dire addirittura che son disponibile a spendere del tempo con te e che poi pago io il caffè, perché te l’ho offerto io e quindi sono disponibile a spendere anche dei soldi, a farti un regalo. Credo che da queste tre cose parta ogni buona relazione.
È possibile evangelizzare le relazioni?
Si può scoprire che cosa già c’è di divino nelle relazioni. Nella relazione noi incontriamo innanzitutto il volere inziale di Dio (Dio ci ha creati in relazione). Dio crea Adamo ed Eva insieme, li crea in relazione. Dal momento in cui noi prendiamo seriamente in mano la questione delle relazioni riscopriamo il disegno originario di Dio. E naturalmente poi alla luce del Vangelo possiamo rivederne le connotazioni fondamentali. Evitare cioè i rischi dell’egoismo, dell’egocentrismo, della violenza e della sopraffazione per mettere, invece, in pratica lo stile di Gesù che è uno stile di accoglienza, di ascolto, di donazione.
Quale è lo stato di salute delle relazioni all’interno della chiesa e delle nostre comunità in particolare?
Sono profondamente convinto che la chiesa nelle nostre terre starà su o scomparirà a seconda di come giocherà le proprie relazioni all’interno e all’esterno. In questa luce si vede quanto sia fondamentale oggi parlare di relazioni e si vede che è tempo di dedicarci molto spazio. Spesso le nostre chiese sono una macchina organizzativa, sono una macchina pastorale. Troppe volte i nostri incontri tra preti o tra operatori pastorali di vario genere sono dedicati ad organizzare e programmare e si lascia veramente in sottofondo la questione della relazione. Invece credo sia urgente – e spero che in questo anno si faccia – dedicare degli incontri tra gli operatori e trai i preti semplicemente a valutare le relazioni che ci sono tra noi e provare a migliorarle. A volte effettivamente è assente la questione. Ci sono delle buone relazioni ma c’è anche tanta freddezza. Devo ammettere che la nostra chiesa in generale non brilla per accoglienza. I nostri uffici parrocchiali, le nostre celebrazioni non brillano in accoglienza. Se arriva un estraneo l’accoglienza non è certo la prima nota che sente. Questo è grave. Io credo che oggi dobbiamo mettere al primo posto la capacità di essere accoglienti, ospitali, aperti, in ascolto. A tutti i livelli: dall’ufficio parrocchiale alla celebrazione più solenne.
Nella lettera citi un salmo e il “Padre nostro”. La preghiera può essere un farmaco per guarire le ferite delle relazioni spezzate?
La preghiera oggi più che mai ci aiuta a renderci conto che non siamo solo noi ad operare, ma c’è sempre un Dio che è all’opera tramite il suo Spirito. Nel mondo secolarizzato questa è la cosa più difficile: lasciare spazio a Dio e credere all’azione di Dio. Tante volte le ferite delle relazioni spezzate ci fanno sentire assolutamente impotenti, sia quando siamo feriti, sia quando noi facciamo dei danni nelle relazioni. È difficile perdonare ed è difficile ogni tanto aver voglia di ricucire. Sapere che c’è un Dio che sta lavorando più di me mi da fiducia nel provare ancora.
In un clima politico e sociale in cui arroganza e prepotenza sembrano avere sempre l’ultima parola, ha ancora senso parlare di gentilezza?
Dobbiamo lavorare per cambiare uno stile. Stiamo vivendo in una società sempre più arrabbiata, dai toni molto violenti, e sempre più sospettosa degli altri. Dobbiamo ricreare fiducia e cercare di far nascere negli altri fiducia. In questo clima la gentilezza dei tratti e dei modi ci potrebbe sicuramente aiutare. La gentilezza non è solo questione di buona educazione. È anche espressione di amore.
Papa Francesco ha annunciato per il prossimo anno un evento mondiale sull’educazione. Le relazioni possono essere educate o sono solo una questione “di cuore”.
Le relazioni non sono un fatto di spontaneità. Le relazioni sono una camminata in salita, non una passeggiata. Le relazioni sono un lavorio continuo e per questo motivo devono essere educate, formate e curate. Ciascuno di noi sa che sulle relazioni serie ci ha sicuramente sudato. Anche quelle che funzionano benissimo. Perché vuol dire ogni tanto mordersi la lingua, vuol dire ogni tanto metterci volontà e fare il primo passo, vuol dire ogni tanto mettersi a servizio, vuol dire ogni tanto saper attendere quando non si vedono risultati…
Una buona relazione è un gran lavoro.
Al termine della lettera si legge: sogno una rete di complici. Che cosa vuol dire?
Vorrei che in tanti leggessero la lettera o almeno la prima parte e che in tanti dedicassero un po’ di tempo a meditare sul tema delle relazioni e sulle proprie relazioni. In questo modo la lettera potrebbe creare una “rete di complici”, cioè una rete di persone che son in sintonia – complici, appunto – per provare a migliorare su questo territorio la relazione.
Patrizio Righero
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