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Chiesa  

Il sacramento della Riconciliazione in tempo di pandemia

Il sacramento della Riconciliazione in tempo di pandemia

L’Ufficio Liturgico diocesano riflette sullo svolgimento delle celebrazioni penitenziali comunitarie

 

La celebrazione rituale: ascolto della Parola, confessione e assoluzione generale
La Conferenza Episcopale Piemontese, a causa del protrarsi del periodo di emergenza sanitaria, ha proposto la valorizzazione della cosiddetta «terza forma» del sacramento della Riconciliazione, ma «ad esclusivo giudizio del vescovo diocesano e secondo modalità da lui stabilite». Di che cosa si tratta? Partiamo da un paio di premesse. Riportate nel Rituale Romano del sacramento della Penitenza, in cui si legge che la «confessione individuale e completa, con la relativa assoluzione, resta l’unico modo ordinario, grazie al quale i fedeli si riconciliano con Dio e con la Chiesa». La ricezione dell’assoluzione sacramentale collettiva richiede ai fedeli alcune condizioni, in particolare che «siano ben disposti: che, cioè, ognuno si penta dei peccati commessi, proponga di evitarli, intenda riparare gli scandali e i danni eventualmente provocati, e s’impegni inoltre a confessare a tempo debito i singoli peccati gravi, di cui al momento non può fare l’accusa. Circa tali disposizioni e condizioni, richieste per la validità del sacramento, i sacerdoti devono accuratamente informare e preavvertire i loro fedeli».
Come si svolge, in concreto, la «terza forma» del sacramento? Dopo i riti di introduzione, la versione comunitaria della celebrazione penitenziale ha inizio con l’ascolto delle letture bibliche, «perché ognuno possa penetrare a fondo la parola di Dio e disporre il cuore ad accoglierne il richiamo. Se si fa una sola lettura è bene desumerla dal Vangelo». Siamo qui nell’ottica del primato della Parola, annunciata pubblicamente e solennemente, come avvenne per il popolo di Israele durante la traversata del deserto nell’esodo dall’Egitto. È, quindi, un’intera comunità che si pone all’ascolto delle pagine bibliche, della voce di Dio che si è espressa attraverso gli autori sacri.
Segue poi l’omelia del sacerdote, il quale «prendendo l’avvio dal testo delle letture, deve portare i penitenti all’esame di coscienza e a un rinnovamento di vita». Al termine del momento omiletico e «prima del silenzio per l’esame di coscienza, o nel corso dell’omelia stessa», è necessario avvertire i fedeli «desiderosi di ricevere l’assoluzione generale, che vi si dispongano a dovere che ognuno, cioè, si penta dei peccati commessi, proponga di evitarli, intenda riparare gli scandali e i danni eventualmente provocati, e si impegni inoltre a confessare a tempo debito i singoli peccati gravi, di cui al momento non può fare l’accusa; venga inoltre proposta una soddisfazione che tutti dovranno fare; i singoli poi potranno, volendo, aggiungervi qualcosa». Dopodiché, il rituale raccomanda di «sostare per qualche tempo in silenzio per far l’esame di coscienza e suscitare nei presenti una vera contrizione dei peccati». Poi ha luogo la confessione generale dei peccati, per introdurre la quale «il diacono o un altro ministro o il sacerdote stesso invita i penitenti, che vogliono ricevere l’assoluzione, a indicare con qualche segno – (per es. l’inchino del capo, la genuflessione o un altro segno, secondo le norme stabilite dalle Conferenze Episcopali) – questa loro volontà, e a dire insieme la formula della confessione generale (per es. il Confesso a Dio); dopo di che si può fare una preghiera litanica o eseguire un canto penitenziale; tutti poi dicono o cantano il Padre nostro». Poi «il sacerdote pronuncia l’invocazione con la quale si chiede la grazia dello Spirito Santo per la remissione dei peccati, si proclama la vittoria sul peccato per mezzo della morte e risurrezione di Cristo, e vien data ai penitenti l’assoluzione sacramentale». Come si conclude la celebrazione? «Il sacerdote invita tutti i presenti a render grazie a Dio per la sua misericordia; dopo un canto adatto, omessa l’orazione conclusiva, benedice il popolo e lo congeda, usando il formulario indicato nel Rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale».

Vincenzo Parisi

 

Alcune riflessioni teologiche e pastorali: la Chiesa-comunità al centro!
Perché quest’altra forma, non bastano le due che già usiamo? Non è una resa della Chiesa di fronte al calo della frequenza al sacramento della Riconciliazione individuale? Non si corre il rischio che poi perda terreno la prima forma che prevede la confessione e assoluzione individuale? Non è solo perché mancano i ministri sacri o è per fare più in fretta mettendo tutti assieme? Non è solo una risposta da usare in tempi difficili come una pandemia che impedisce l’incontro personale col ministro? Sono solo alcune tra le più comuni domande che si sentono in merito. Se ci si ferma qui, nel tentativo di rispondere, si rischia di banalizzare la ricchezza di un sacramento rispondendo a domande banali e inutili con risposte banali e altrettanto inutili.
Occorre spostare totalmente la riflessione dalle domande, dai perché, per poter guardare piuttosto alla peculiarità intrinseca in questa terza forma, a ciò che sfugge normalmente all’osservazione veloce. Tale peculiarità si può condensare in un termine già conosciuto: comunità. Sì, questa forma celebrativa è prettamente e totalmente finalizzata alla azione celebrativa di una comunità ecclesiale. Comunità celebrante, convocata dalla Parola annunciata, e che, provocata comunitariamente, si spinge verso una risposta rituale tutta comunitaria. Non è più solamente il singolo che si lascia interpellare nel suo relazionarsi con Dio: un Dio che parla con lui e solo per lui; non più è solo una questione di coscienza individuale e isolata che si mette a confronto e cerca passi di conversione personale, slegata da tutti gli altri che anche fisicamente sono lì con lui; quanto piuttosto qui si tratta di una presa di coscienza comune verso una realtà che è importante per Dio quanto la persona singola, quale appunto è la comunità, l’Ecclesìa. Dio convoca l’Ecclesìa con la sua Parola; Dio intesse una relazione personale con l’Ecclesìa, che a sua volta avvolge ogni singolo credente in un gioco comunitario di ascolto, domanda di perdono e regali di salvezza. La terza forma è sicuramente quella che ritualmente più mette in luce il concetto di Chiesa-comunità riscoperto dal Concilio Vaticano II. Per questo occorre evitare la banalizzazione riduttiva per puntare ad una comprensione e celebrazione che metta in risalto, che metta al centro, la comunità che celebra comunitariamente la sua Riconciliazione con il suo Dio.
Anche le restrizioni previste per la validità della assoluzione in questo rito non sfuggono all’impianto comunitario di fondo. Le restrizioni indicate per alcuni peccati, con relativo consiglio di accostarsi il prima possibile alla celebrazione individuale, non sono uno sminuire la piena validità di questa forma rituale per ribadire una priorità, un super-potere di una forma sull’altra; quanto piuttosto manifestano l’attenzione della comunità che chiama il singolo a riflettere un po’ di più sulla sua situazione spirituale compromessa. Comunità che per questo vuol provare mediante delle regole, ad impostare con lui un itinerario di comprensione più profonda del significato di peccato e del valore del perdono che gli è stato regalato. Le restrizioni non sono quindi un vincolo sul potere di assolvere di questa forma celebrativa ma invece il tentativo di incarnare una premura della comunità-Chiesa, che si sente madre e vuole aiutare i suoi figli, percorrendo con loro, con il consiglio, con la direzione spirituale, la via più sicura possibile di conversione per la Salvezza. Lo sappiamo bene che Dio perdona ed assolve dai peccati chi vuole e come vuole, e non ha bisogno dei nostri prontuari. E chi sa con certezza se l’ assoluzione impartita dal ministro, in nome di Dio, in questa terza forma rituale non sia totale, o non sia completa. Il perdono di Dio nei nostri confronti è totale non parziale: Dio, quando ci perdona, ci perdona senza riserve… così parla la Bibbia! Anche la frase del Risorto «a coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 12,23) è da intendere bene e probabilmente più nel senso della responsabilità che nel senso della potestà discriminante. Siamo noi, come Chiesa fatta di uomini e donne di questo mondo che usiamo schemi, prontuari e riserve… provando e cercando… così e umanamente… di aiutare un credente che si trova in un momento di difficoltà a causa delle sue fragilità. La riflessione da fare è ancora molto lunga… Ma grazie alla scelta dei nostri vescovi, abbiamo oggi una opportunità speciale, siamo forse all’inizio di un nuovo modo di vivere la Chiesa, non sprechiamo dunque il dono che ci viene fatto!

don Mauro Roventi Beccari

 

stola Quaresima

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