21 Dicembre 2020
Il presepe di Giovannino Guareschi, ossia l’aiuto di cui necessitiamo in questo Santo Natale di reclusione

In questa foto potete vedere il celebre Presepe che il “subcreatore” di Don Camillo e Peppone contribuì a costruire nel ‘43. L’ho scatta durante il mio recente viaggio nel suo “Mondo Piccolo” (leggi qui).
Giovannino Guareschi lo costruì – si tratta del frutto di un progetto su carta da pacchi – quando era l’internato numero 6865 presso il lager Beniaminowo, in Polonia, nel Natale de l 1943. Finì qui perché con altri 6.000 uomini si rifiutò di aderire – dopo l’8 settembre – alla repubblica di Salò. Sullo sfondo si può vedere l’abitazione (la scuola di Marore) nella quale la famiglia di Guareschi era sfollata per fuggire dai bombardamenti su Milano. Come si evince, le luci della casa sono accese; questo permetteva al Guareschi prigioniero di addormentarsi sereno, perché quelle luci gli raccontavano che la moglie e i due figli (Albertino e la Carlotta che ancora non aveva potuto vedere) stavano bene. Cosicché anche lui poteva addormentarsi sereno e determinato a non mollare, come ricorda il suo racconto Signora Germania (in Diario clandestino): “È inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi. E questo è niente ancora, signora Germania: perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti. con la famosa frase del Diario clandestino “Non muoio neanche se mi ammazzano”.
Giovannino ci parla di esso nel racconto Il Presepe (dal volume Giovannino nei Lager), frutto della sua esperienza come Internato militare italiano numero 6865, presso il lager di Beniaminowo, Polonia; correva il Santo Natale del 1943 e in quell’occasione il Presepe divenne ancora di più un’opportunità per coltivare la Speranza di superare quella dolorosa circostanza e far ritorno dai propri cari:
«Allora la maggior parte di noi chiusi nel reticolato, aveva dimenticato che, tutt’attorno alla siepe c’erano uomini che nascevano, vivevano, morivano, pensavano, amavano. Aveva dimenticato che, al di là del filo spinato esistevano l’arte, la carità, l’etica, l’avvenire, la filosofia, la storia e l’estetica. Si era convinta che tutto il mondo fosse ridotto ai pochi palmi di sabbia delimitati dalla siepe e, persa la nozione dei grandi spazi e delle cose eterne, aveva adeguato l’occhio e la mente alle angustie del suo nuovo mondo. E così, la maggior parte di noi era arrivata a discutere giorno e, di grammi, ma già il grammo sembrava qualcosa di troppo grande, e già taluno pensava, probabilmente, a nuovi orizzonti che si sarebbero aperti passando nel campo delle molecole e degli atomi. […] Il capitano Novello dipinse e ritagliò sul cartone un grande Presepe con angeli e campane e, sullo sfondo, un paesaggio delle nostre terre, e, fra i pastori adoranti, un gruppo di internati. Quando, dopo tanto tempo, rivedemmo le nostre valli e ci lasciammo, ci dividemmo in cinque i pezzi del presepe: a Novello lo sfondo, a Rebora il gruppo degli internati, a Malarini la schiera dei pastori, a Malavasi il tetto della capanna con gli angeli e le campane, a me il gruppo col Bambinello e il resto della capanna».
Il Presepe costruito nel lager continuerà a dare Speranza a Guareschi in un’altra prigionia; quella dal 26 maggio 1954 al 26 gennaio 1956, quando questi passò (ingiustamente) 405 giorni di nuova e amarissima reclusione nelle carceri di San Francesco, a Parma (che a breve tornerà a essere una chiesa, grazie alla Diocesi); la nuova prigionia avvenne a causa del “caso De Gasperi”:
https://www.giovanninoguareschi.com/ta-pum/tapum.html
Il 29 luglio del ’54 scrisse sul Quaderno n. 2 del carcere: “La mia carriera di giornalista è incominciata onorevolmente in un campo di concentramento tedesco ed è finita miseramente in un carcere italiano. Provo vergogna davanti ai rapinatori e ai ladri di galline. Non è colpa mia, ma oggi mi sento più spregevole di loro”.
Perché parlarne?
Perché farne memoria è trovare un significativo ausilio in questo periodo storico segnato dalla “reclusione” (certo, non paragonabile a un campo di concentramento, o a una vecchia prigione di epoca giacobino-napoleonica): perché ci spinge ad avere fiducia nella Divina Provvidenza, la quale non ci abbandona mai, nemmeno se fossimo tra le grinfie del più temibile regime totalitario; a trasformare la propria e l’altrui quotidianità in un’isola di pace e di letizia, traendo il bene dal male, per vivere con Fede, Speranza e Carità; a vedere il Presepe quale lo vedeva Giovannino, ovvero una finestra prospiciente l’eternità, ove il rapporto con Dio, con i familiari, gli amici e il prossimo in generale, sono pilastri fondamentali per il bene di ogni uomo (come provavo a dire alcuni mesi fa: leggi qui). E questo è più importante di passare buona parte del proprio tempo (poco perché prezioso) a chiedersi se il covid-19 sia o no causato da un complotto cinese o dei poteri frutti, oppure di entrambi…
In tal modo potremo affrontare due problemi ben più pericolosi di qualsiasi virus, la disperazione e la noia. Essi erano presenti anche prima dell’emergenza, ma il covid li ha resi ancor più evidenti, attraverso le restrizioni che ha causato. Tant’è vero che i nostri ultimi vent’anni si caratterizzano per mali come il consumismo, il relativismo, il gaio nichilismo etc: sintomi della perdita di speranza nella Verità che nasce “incarnata” il 25 dicembre ed è annunciata indefessamente dalla Chiesa.
La noia in particolare è il “cancro” di cui aveva avuto acuta consapevolezza Georges Bernanos, il quale scriveva nelle prime pagine del Diario di un curato di campagna: “La mia parrocchia è divorata dalla noia, ecco la parola. Come tante altre parrocchie! La noia le divora sotto i nostri occhi e noi non possiamo farci nulla. Qualche giorno forse saremo vinti dal contagio, scopriremo in noi un simile cancro. Si può vivere molto a lungo con questo in corpo”.
Perciò se porremo sotto l’albero “regali guareschiani”, quali La favola di Natale, Diario clandestino 1943-1945 e Ritorno alla base – che si possono trovare in un unico volume: il già citato Giovannino nei Lager – avremo assicurato alle nostre famiglie, o a quelle dei conoscenti e amici, un prezioso assaggio di Paradiso, come riconferma il racconto Don Camillo e don Chichì:
Don Camillo spalancò le braccia [rivolto al crocifisso]: “Signore, cos’è questo vento di pazzia? Non è forse che il cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida autodistruzione?”.
“Don Camillo, perché tanto pessimismo? Allora il mio sacrificio sarebbe stato inutile? La mia missione fra gli uomini sarebbe dunque fallita perché la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio?”.
“No, Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede. Cose senza le quali non si può vivere. Questa è l’autodistruzione di cui parlavo. L’uomo, mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L’unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato. Un giorno non lontano si troverà come il bruto delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito dell’uomo sarà quello del bruto delle caverne […] Signore, se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?”.
Il Cristo sorrise: “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più, ogni giorno nuove anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri. Uomini di ogni razza, di ogni estrazione, d’ogni cultura”. (In Tutto Don Camillo. Mondo piccolo, II, BUR, Milano, 2008, pp. 3114-3115).
Daniele Barale
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