4 Marzo 2016
Gli si gettò al collo e lo baciò

Commento al Vangelo della IV Domenica di Quaresima (C) a Cura di Carmela Pietrarossa. Domenica 6 marzo 2016
In ascolto della Parola, Verità sul nostro cammino
In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto» (Gs 5, 9-12).
“Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2Cor 5, 17-21).
“Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (Lc 15,1-3.11-32).
La Parola ci traccia la Via
E’ questa la domenica in cui riflettiamo sulla paternità di Dio, Padre misericordioso, in quella meravigliosa parabola che incanta e stupisce il lettore perchè stravolge la logica umana della giustizia e del contraccambio, introducendo quella della gratuità e dell’amore.
Cerchiamo di introdurre i personaggi che la animano indicandone le peculiarità:
in primo luogo il padre che divide tra i due figli il suo patrimonio di beni; il figlio minore, poi, che in presenza del dono del padre, si sente autorizzato a gestirlo senza rispetto alcuno dei sacrifici compiuti da lui per assicurarglielo (la vita di Gesù per noi), ed il figlio maggiore, infine, osservante scrupoloso dei comandi del padre, privi, ormai, di qualsiasivoglia motivazione intrinseca.
Vi è, pertanto, da un lato l’atteggiamento del giovane figlio che, presumendo di poter fare a meno del Padre e di gestire la vita a modo suo, sperpera tutto e si trova nel bisogno, in una condizione inferiore addirittura a quella dei maiali che pascolava nel paese dove si reca e che avevano di che mangiare. Lontano da Dio sogna una pienezza che diventa vuoto assoluto, annichilimento totale: “Ha voluto scrivere da solo la propria vita”, commenta Papa Francesco, “prendendo a calci le regole della disciplina paterna…e Dio è molto buono, approfitta dei nostri fallimenti per parlarci al cuore”.
Vi è, poi, il figlio maggiore di cui colpisce la saccenza; egli, in virtù della sua “ossequiosa” osservanza della legge, crede di avere diritto ai favori esclusivi del Padre. E’ un uomo che rendiconta e contabilizza il suo lavoro al servizio del Padre; è un devoto triste, perfetto nell’adempimento dei suoi doveri, ma, in realtà, è come se seguisse il Padre con una catena al collo, perché non lo ama più e desidera quel “capretto”, che poi menzionerà, simbolo di un peccato che ha coltivato dentro di sè. La sua virtuosa perfezione è sola forma, pura apparenza, ma senza cuore. Da tempo ha smesso di amare suo Padre e di credere in lui, per questo non comprende e gli sembra irragionevole l’amore dimostrato da questi nei confronti del fratello tornato a casa.
Chi non ama, non è capace di comprendere neanche gli altrui gesti di amore.
Due posizioni, parimenti, anomale, che incrociano, comunque, lo sguardo colmo di amore e di tenerezza del Padre, il quale non esita, quando “vede” il figlio minore tornare a casa, ad avere compassione di lui, andandogli incontro, gettandosi al collo e baciandolo, senza rimproverargli nulla. L’ordinare che gli venga messo l’anello al dito significa ristabilire la dignità di figlio in colui che si era allontanato dalla casa paterna, riconoscendogli autorità su tutto ciò che è suo.
Essere figli è una dignità che ci qualifica sempre, come sperimentiamo già in ambito naturale. Quando incontriamo persone della nostra zona che non ci conoscono, quasi sempre la prima domanda che ci pongono, è questa: “Chi sono i tuoi genitori?”, se mai anche nel dialetto del posto.
Siamo, dunque, orgogliosamente figli dei nostri genitori, e questo conferisce un valore aggiunto anche alle nostre esistenze in quanto siamo lieti di essere identificati come loro figli; a maggior ragione nel rapporto con Dio, il peccato può scalfire questa filiazione, ma non eliminarla, restiamo sempre suoi figli e l’essere figli di Dio ci qualifica attribuendoci una dignità altissima.
Il Padre non ha detto a suo figlio, ci dice ancora Papa Francesco: “Sei un fallito, guarda cosa hai combinato!”, niente di tutto questo, gli ha fatto soltanto sperimentare “L’abbraccio della sua misericordia” (Papa Francesco). Eppure aveva sperperato i suoi beni, ma è un Padre che ama e dona tutto, rischiando anche che il suo dono resti non solo incompreso, ma venga addirittura disprezzato.
Chi ama, infatti, sa che si espone anche a questo rischio e che non è detto che il suo amore venga ricambiato.
Anche nei confronti del figlio maggiore che si rifiuta di partecipare al banchetto organizzato per festeggiare il ritorno del fratello, il padre ha un comportamento insolito: esce a “supplicarlo”, a voler significare che non lo ama meno dell’altro, infatti, tutto ciò che è suo appartiene anche a lui, ma “bisognava far festa” per il ritorno alla vita di quel figlio.
A quale categoria di cristiani apparteniamo?
Ai fedeli osservanti che si ergono a giudici dei fratelli perché presumono di essere giusti, ma hanno smarrito le motivazioni profonde della propria fede, che è amare e mettersi al servizio di Dio e dei fratelli? O a coloro che si riconoscono poveri e peccatori e con umiltà si inginocchiano dinanzi a Dio chiedendo perdono per le continue incorrispondenze alla Grazia, sperimentando, poi, la gioia di un Dio che li abbraccia teneramente, offrendo sempre un’altra possibilità?
Soprattutto, facciamo nostro l’atteggiamento del Padre, che, nonostante tutto, continua ad aspettare il ritorno dei suoi figli.
La Parola diventa Vita, nell’oggi del tempo
Dal Salmo di questa domenica:
Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore: i poveri ascoltino e si rallegrino (Sal 33).
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