23 Ottobre 2011
Giornata Missionaria Mondiale
La riflessione di Mario Bert, coordinatore dell’Ufficio Missionario Diocesano MAL D’AFRICA: curarlo o coltivarlo?
Il mio primo contatto diretto con l’Africa risale a 37 anni fa. Per una serie di coincidenze ho incontrato a Luserna un caro amico missionario in Congo (allora si chiamava Zaire) e con un gruppetto di amici abbiamo deciso di fargli visita nella missione che aveva appena accettato di guidare: Lukanga. Il paesaggio, il clima, la vegetazione, i grandi laghi, la savana, i tramonti: tutto ci stupiva e introduceva nel nostro animo quel mal d’Africa di cui avevamo sentito parlare, che ti spinge a ritornare per conoscere di più e goderti meglio queste meraviglie: un male piacevole!
Lo stile di vita così diverso dal nostro, la semplicità di una vita portata avanti nella miseria, ma con dignità, la difficoltà di procurasi un pasto al giorno per la sopravvivenza, la mancanza di luce e acqua potabile, l’assenza di un presidio sanitario minimo, la morte dei bambini portati a sepoltura nella foresta accompagnati solo dai genitori e pochi amici… e tutto questo non impediva comunque di accogliere l’ospite con cordialità e rispetto: sono stato toccato profondamente, mi ha fatto male, un male da non curare con l’indifferenza e l’oblio. Ho potuto dopo tanti anni ritornare da questo amico missionario nella sua attuale missione di Muhanga nella Repubblica Democratica del Congo, Nord Kivu, zona dei grandi laghi, nella foresta equatoriale. Altro spettacolo indescrivibile: la natura ti sovrasta, la vegetazione è imponente e nasconde un mondo misterioso di pianticelle, animali e persone. Vorresti stabilirti e rimanere lì: ti riprende il piacevole mal d’Africa. Rimango lì un mese, vivo il mio primo Natale in Africa con la comunità e con i familiari, osservo e cerco di capire cosa sia cambiato nei 37 anni dalla prima visita. Pur con la difficoltà della lingua che non conosco (il francese mi salva in parte) faccio domande, cerco di conoscere meglio gli animi degli amici africani che vivono in questo villaggio, incontro molti militari di vario segno (mimai – esercito nazionale – fuggiaschi del Ruwanda) e mi riprende il male che fa male. Ti assillano molti interrogativi ai quali potresti rispondere con leggerezza perché non ti lascino l’amaro in bocca. Perché in una terra così fertile (produce tutto l’anno) con acqua potabile di montagna (siamo a 1700 m. s.l.m.) i nostri amici riescono appena a fare un modesto pasto al giorno: manioca cotta a mo’ di polenta (bugali), qualche salsa di verdure e poche proteine animali (ogni tanto, quando si possono permettere un pezzo di gallina o di maiale o di pesce)? La frutta non mancherebbe, cresce spontanea, la verdura si coltiva, ma non sempre la può consumare chi l’ha seminata.
Ho chiesto in una delle riunioni settimanali dei rappresentanti delle famiglie: «Quali progetti avete per il vostro futuro?» Mi è stato risposto: «Ci hanno tolto anche i sogni. Siamo lavoratori, la terra è fertile, darebbe più di quanto ci serve per le nostre famiglie: ma non sai se riesci a raccogliere quello che hai seminato, perché i militari mal pagati ci derubano con la forza. Cosa vuoi che facciamo progetti!». La via di accesso al villaggio se la sono costruita con zappe e pale gli abitanti per percorrere i 35 chilometri che li separano dalla strada che unisce alla capitale. Con il fuoristrada ci impieghi tre ore, quando non ci sono troppe buche scavate da camion che trasportano il legno della foresta. E sì, perché le bellissime e altissime piante che fanno la bellezza della foresta hanno fatto gola ai commercianti di legno per mobili, che distruggono foresta e strada. Arrivi al villaggio con i muscoli rattrappiti e le ossa scosse (due giorni di viaggio dall’arrivo in aeroporto a Kampala in Uganda) e l’accoglienza calorosa ed entusiasta ti fa dimenticare tutto il viaggio e ti viene un groppo alla gola (è la prima volta che li incontri e hai l’impressione di essere sempre stato lì). Quando nella stessa riunione dei rappresentanti delle famiglie – si trovano per confrontarsi sui problemi da risolvere e sulla conduzione della vita del villaggio – ho chiesto se non dava fastidio a loro la nostra presenza (siamo “benestanti” – ci possiamo permettere il viaggio che loro non possono fare in senso contrario) mi hanno risposto che «se siete venuti a trovarci, nonostante la continua presenza disturbatrice dei soldati e quindi con qualche rischio, vuol dire che ci volete bene». Mi sono sentito piccolo, piccolo. Ma perché la presenza di soldati in una zona così isolata e con abitanti così tranquilli? Che il problema sia la difesa di chi sfrutta l’oro, il coltan e gli atri minerali di cui è ricca la zona perché non venga disturbato e possa conferire alla grande distribuzione il materiale raccolto? Ancora domande… Il male continua a disturbarti. Dopo 37 anni fanno a stento ancora un solo pasto al giorno, dormono su giacigli di foglie (pochi si possono permettere un materasso, qualcuno si costruisce delle stuoie con erbe lunghe e resistenti) in capanne non sempre coperte di lamiera, hanno l’acqua in fontane sparse (vi accedono con fusti di plastica tipo quelli del kerosene e li portano a casa appesi ad una stringa di stoffa appoggiata sul capo , donne e ragazzine), dissodano la terra con zappe, trasportano il legno per cucinare nella capanna in grandi fasci appesi alla testa, sempre le donne, magari anche con il figlio piccolo sopra il fascio. Penso al mio mondo, alle comodità a volte superflue, alla freddezza di chi incontri e non sempre osi salutare per paura di disturbare, alla diffidenza verso gli emigrati che cercano rifugio e lavoro, ai “sostegni allo sviluppo” che arricchiscono noi e lasciano loro sempre più poveri.
Il male d’Africa si fa pressante e ti spinge a scegliere da che parte stare. Mi viene il dubbio – che si fa quasi certezza – che per dare agli amici in Africa più possibilità di vita, io, nato nel mondo del benessere, devo fare un passo indietro, vivere con meno esigenze, riscoprire il vero valore dell’uomo (cos’è, non cosa possiede) e collaborare a cambiare il nostro mondo, perché riconosca a loro gli stessi diritti e le stesse possibilità di vita. Devo farlo sul piano politico, ma non posso non approfittare della forza che una fede evangelica ha in se stessa. Per questi motivi ho accettato di collaborare con l’Ufficio Missionario. Lo hanno fatto anche una giovane coppia e una ragazza che hanno fatto esperienze in altre realtà simili.
Mario Bert
Coordinatore Ufficio Missionario Diocesano
L’ufficio missionario si trova in via del Pino, 59 ed è aperto tutti i sabati dalle 9.30 alle 11.30.
È presente anche sul sito www.diocesipinerolo.it – Uffici –Missioni
Per informazioni 0121373334; e-mail: missioni@diocesipinerolo.it
Guarda il video “Una giornata a Muhanga” con il commento di Don Giovanni Piumatti
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